STORIA DI MARAS IV – Una nuova vita – Prime esperienze

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Autobiografia

Una nuova vita

Ginetta Calliari

Ginetta Calliari

Arrivato a casa, aprii la Bibbia e vi cercai la frase che più volte era stata ripetuta durante l’incontro: “Qualunque cosa avete fatta al più piccolo dei miei fratelli, l’avete fatta a me”. Volevo verificare se fosse proprio così, perché intuivo che da lì avrebbe dovuto partire la mia nuova vita. La trovai e la meditai a lungo: era proprio così, senza nessun “come” o “se” che ne avrebbero potuto attenuare l’assolutezza. Allora decisi di cominciare. Alzandomi cercai di non svegliare l’anziana affittacamere bisbetica e sempre scontenta. Salendo sul tram ringraziai, per la prima volta, il controllore quando mi porse, senza guardare, il biglietto; entrando in ospedale salutai per primo il portiere, ritenuto da tutti persona poco raccomandabile, e gli chiesi come stava e come aveva dormito la notte.

Dal suono della mia voce e da come mi rispose stupito mi accorsi di esser cambiato e questa impressione si ripeté poco dopo in sala operatoria quando mi trovai a considerare positivamente situazioni e persone che, ancora il giorno prima, avevo criticato e giudicato male.

“Se gli uomini sono cattivi è perché non sono stati abbastanza amati”. Questa frase che avevo udita spesso mi apparve ora in tutta la sua evidenza. Si trattava dunque di cambiare “dentro!”, di amare veramente ognuno e l’atteggiamento esterno ne sarebbe stata l’espressione visibile ed efficace. Il dilemma essere-agire non era più tale. Ciò che dissociava gli uomini e smembrava la società appariva risolto.

Si trattava soltanto di continuare ora a unificare tutto e tutti con un amore che solo Dio poteva avere e dare. Come aveva fatto Gesù. E accostandomi all’Eucaristia con una fede – direi una certezza – nuova, Gli chiesi che fosse Lui a informare la mia vita – il mio essere e agire – per realizzare con Chiara e le sue prime compagne quell’unità di cui la sera prima Ginetta aveva a lungo parlato. La giornata fu lunga e impegnativa. La quasi certezza che avevo avvertito al momento dell’Eucaristia, non era apparsa più tale in diverse situazioni presentatesi durante il giorno. Per cui arrivai alla sera stanchissimo e con un gran desiderio – direi un bisogno – di incontrare di nuovo Ginetta. La trovai come la sera prima, sorridente e serena, attorniata da un gruppo più numeroso di persone e le chiesi come facesse lei a mantenersi così, mentre io ero visibilmente stanco. Mi parlò dell’attimo presente e la cosa mi parve chiarificante. Ripartii soddisfatto. Il giorno dopo però non fu facile vivere l’attimo presente; spesse volte me ne dimenticai e qualche volta non mi sembro possibile. “Per esempio” – dissi a Ginetta incontrandola di nuovo – “quando qualcuno commette una ingiustizia o compie un atto immorale (era l’esperienza della giornata) come posso amarlo?” Sul momento non rispose, ma poco dopo, al gruppo riunitosi attorno a lei, parlò di Gesù Abbandonato. Io ebbi l’impressione di una luce così forte che non solo il mio problema fu risolto, ma tutti i problemi, compreso quello del dolore – che fin da ragazzo mi aveva spinto verso la professione medica e che restava per la stragrande maggioranza degli uomini un problema non risolto – si erano chiarificati.

E tutto era spiegato da quella luce: la vita stessa, l’amore!

Tutto appariva chiaro e io stesso mi sentivo chiaro, tutto pieno di luce. “Questa sera sei nato” mi disse Ginetta. Io avevo l’impressione di essere “nato” qualche sera prima, quando avevo sentito raccontare la storia dell’Ideale; era però vero che solo ora provavo una felicità piena che si identificava con la chiarezza (ma le parole non rendono l’impressione). Per cui ritenni anch’io di essere nato quella sera, di cui però non ricordo la data. Era comunque la fine del ’49.

Piero Pasolini

Piero Pasolini

Dopo qualche giorno Ginetta tornò a Trento e noi – Oreste, Piero, Giorgio e io – continuammo ad incontrarci ogni sera per  “fare unità”. Non veniva fuori granché, anche se ci raccontavamo le nostre esperienze e c’era tanta buona volontà da parte di ciascuno. Mettevamo in comune soprattutto i nostri fallimenti, questo, oltre a tenerci in umiltà, denotava che almeno l’idea di come avremmo dovuto vivere c’era entrata dentro. Comunque i nostri incontri terminavano sempre col programmare un ritorno di Ginetta o una nostra andata a Trento.

Intanto io avevo più volte invitato Guglielmo che frequentava anche lui la Cardinal Ferrari a conoscere “una signorina di Trento”. Una sera finalmente accettò, a malincuore – mi disse poi – perché un invito così formulato né gli garbava, né se lo aspettava da me. E al ritorno di Ginetta era presente anche lui. In quel periodo scrissi anche a mia madre parlandole della mia “scoperta” e, sapendo che stava per recarsi a Roma a un congresso del CIF, le diedi l’indirizzo del focolare.

Dopo una settimana la vidi arrivare a Milano, tutta raggiante, in compagnia di una suora alla quale già aveva parlato del focolare e che voleva far conoscere a Ginetta. Da quel momento gli incontri e la corrispondenza con mia madre assunsero un carattere nuovo e il rapporto fra noi si spostò su un altro piano.

Qualcosa di nuovo era avvenuto anche per quel che riguarda il mio stato fisico. Prima pensavo molto alla mia salute, mi proteggevo con sciarpa, cappello e guanti, e tenevo una dieta rigida per una sospettata ulcera duodenale. Ora il nuovo genere di vita mi rendeva spesso impossibile pensare, per esempio, a coprirmi quando dalla sala operatoria, con 22 gradi di temperatura, venivo chiamato d’urgenza in un padiglione al di là di un cortile pieno di neve. Allo stesso modo non mi veniva neppure in mente di mettere delle riserve quando, visitando un ammalato a casa sua, questi mi chiedeva di fermarmi a cena offrendomi di cuore quel poco o tanto che aveva. E constatai più tardi, con sorpresa, che mi erano spariti i dolori allo stomaco e che tante precauzioni di prima contro il freddo erano ora superflue. Da quel tempo infatti non portai più né sciarpa né cappello né guanti.

Un’altra grande novità fu per me il “bisogno” di partecipare ogni giorno alla Messa e di cibarmi dell’Eucaristia. Nessuno me lo aveva detto ma mi sembrò normale, avendo deciso di amare Gesù nel prossimo, amarLo nell’Eucaristia dove Egli è in corpo, sangue, anima e divinità. Per questo cominciai ad alzarmi prima al mattino per recarmi in chiesa, rinunciando spesso alla colazione per non far tardi al lavoro.

Prime esperienze

Nella clinica che frequentavo si dava molta importanza alla pratica, mentre lo studio teorico dell’anestesia era lasciato alla libera iniziativa degli specializzandi. Fu un’ottima occasione per concentrarmi sugli ammalati – diventati ormai “prossimi” – e per cercare di conoscerli e di trattarli con quell’amore sul quale, alla fine della vita, sarei state esaminato. Così facendo mi trovai ben presto avvantaggiato sui colleghi che, vedendo nei pazienti solo “casi” più o meno interessanti, non ottenevano i miei stessi risultati. Allo stesso modo cercavo di star vicino al capo-anestesista per aiutarlo nel suo lavoro, ed anche qui venni a scoprire tante cose che nessun libro riportava, tanto più che di libri di anestesia non ne esistevano. C’erano soltanto riviste, molto costose, nessuna in italiano, che occorreva richiedere all’estero e sulle quali, solo ogni tanto, si trovava un articolo interessante. Per cui occorreva tempo per scegliere, tradurre, per confrontare, e il profitto alla fine non era molto. Io poi col nuovo genere di vita, che mi faceva scoprire dappertutto prossimi bisognosi di aiuto, non riuscivo facilmente a concentrarmi in una preparazione teorica, tra l’altro non molto considerata dai nostri insegnanti.

Però, avvicinandosi gli esami, mi domandai se dovessi far qualcosa anche in questo senso. Non ebbi però modo di darmi una risposta perché i miei colleghi, sempre più preoccupati e nervosi cominciarono, a turno, a farmi partecipe del motivo della loro tensione: un articolo che non erano riusciti a capire, una formula che non ricordavano, un metodo che non appariva chiaro.

Praticamente la settimana prima degli esami fui quasi costretto, per la carità nei loro confronti, ad ascoltarli, a riesaminare con loro articoli, formule e metodi, e siccome le riviste erano già tradotte e molte nozioni già elaborate, mi feci senza volerlo un’ottima preparazione con relativamente poco sforzo. All’esame fummo tutti promossi ed io primo in graduatoria.

Maras con il dott. Enrico Cavallini (a sinistra)

Maras con il dott. Enrico Cavallini (a sinistra)

Questo risultato fu notato dal direttore della clinica che, dopo pochi giorni, mi offrì un lavoro con lui in una casa di cura privata. Era un posto molto ambito e ben retribuito, per cui molti si felicitarono con me. Tra loro c’era un collega, alla vigilia delle nozze, che non aveva nessuna sicurezza di sistemazione futura. Mi fu spontaneo quindi offrire a lui quel posto, e siccome il direttore voleva proprio me, feci di tutto per mettergli in luce le qualità del mio collega al punto che lo persuasi ad assumerlo. “O è matto, o c’è qualcosa – fu il commento che udii fare, non visto, da due colleghi che parlavano fra loro – ma siccome matto non è…” e non finirono la frase.

Questo “qualcosa” lo notarono molti e si rifletté anche sulla professione libera che occasionalmente esercitavo. Un giorno venni a conoscere una giovane donna, madre di due figli, che soffriva di insonnia. Aveva consultato molti medici, ognuno dei quali le aveva consigliate un sonnifero diverso, ma l’insonnia era rimasta. Per di più si era creata in lei una totale sfiducia nei medici e nelle medicine. Ascoltandola attentamente tirò fuori che il marito era disoccupato e che i bambini non stavano bene. Pensai che quella preoccupazione poteva essere la causa della sua insonnia. Infatti quando dopo alcuni giorni, attraverso i miei amici riuscii a trovare un lavoro per il marito e una sistemazione per i bambini, la donna ritrovò il sonno senza bisogno di farmaci. La cosa fu risaputa e aumentò rapidamente il numero di coloro che volevano essere visitati da me. Furono altrettante occasioni per mettere in pratica la carità e dar testimonianza, specialmente a chi mi conosceva prima, della nuova vita che avevo iniziato.

Una pausa al lavoro intensissimo fu rappresentata dall’estate che trascorsi, come assistente medico, in una colonia marina. Intanto Oreste, Piero e Giorgio avevano programmato le vacanze a Tonadico e mi invitarono ad andare con loro ma io, a causa dell’impegno preso in precedenza, dovetti rinunciare. Il collegamento con Ginetta fu mantenuto attraverso lettere settimanali che portavano la “parola di vita” e qualche notizia; lettere e notizie che trasmettevo a Guglielmo che stava prestando il servizio militare.

La colonia marina di Sarzana era costituita da un centinaio di bambini, da dieci vigilatrici tutte sui vent’anni, da un direttore, un cappellano – entrambi anziani – e da me. Essendo io l’unico giovane in mezzo a tante ragazze e avendo subito suscitato una certa curiosità a causa della Comunione quotidiana, cercai di tenermi appartato passando molto tempo in stanza a leggere e a scrivere.

Ma una notte una vigilatrice venne a svegliarmi perché un bambino stava male. Aveva la febbre alta e delirava. Non sapendo di cosa si trattasse, diedi un antipiretico e iniettai penicillina. La signorina mi assicurò di continuare le somministrazioni – in quel tempo la penicillina veniva iniettata ogni tre ore – ma io non ero tranquillo e stetti alzato tutta la notte per sorvegliare le condizioni del bambino. “Gli altri medici non facevano così – disse meravigliata la vigilatrice – perché non va a riposare?” Le parlai del “prossimo” e le dissi che cercavo di essere coerente col cristianesimo che professavo. Allora X… mi parlò di sé, della sua famiglia (18 fratelli oltre i genitori e una zia), del papà ormai anziano – un vero patriarca – pieno di saggezza e di esperienza, del cristianesimo che tutti insieme si aiutavano a vivere e della pace che regnava fra tutti, pur fra le immancabili difficoltà. Mi disse dell’amicizia che aveva legato suo padre a Pio X e al Cardinal Ferrari e del suo desiderio di essere “più brava” per essere all’altezza di ciò che papà e mamma le insegnavano continuamente.

Dal racconto di come si comportava coi fratelli e le sorelle, tutti più giovani di lei, mi pareva che fosse già abbastanza brava, e così le parlai dell’Ideale e della nuova vita che avevo conosciuto. Fu molto bello, e al mattino, che arrivò in un attimo, eravamo entrambi felici. Se ne accorsero tutti in colonia e questo mi consigliò di raddoppiare la prudenza, anche se non mi sarebbe sembrato vero di avere qualcuno con cui parlare liberamente. Ne scrissi a Ginetta e ne scrissi anche a un sacerdote di Carpi, amico di Guglielmo e mio, con cui un giorno si era parlato a lungo in FUCI sulla “scelta dello stato”.

Lui sosteneva che un giovane deve cercare una ragazza, se vuole sposarsi; io replicavo che bisognava solo stare attenti a ciò che Dio faceva capire. Siccome in quel mese si viveva la parola di vita “cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù” gli scrissi che in questa frase trovavo un’ulteriore conferma a ciò che già prima pensavo. Mentre però scrivevo, fui come folgorato da un’idea: la ragazza per me, Dio forse me l’aveva fatta trovare! Entrai in crisi perché, anche se confusamente, l’incontro con l’Ideale l’avevo percepito come una chiamata. Cosa significava ora questa nuova esperienza? Cercai di calmarmi e di non pensare. “A chi mi ama mi manifesterò” questa frase di Gesù che avevo sentito tante volte, era ora il momento di viverla più che mai. Mi buttai a giocare coi bambini sulla spiaggia, trovai un buon rapporto col direttore, e passai ore intere col cappellano che aveva tante cose da raccontare. Intanto X… scrisse a Ginetta la quale le rispose fissandole un appuntamento per dopo le vacanze.

Al ritorno dalla colonia estiva, ottenni un posto di assistente nella clinica chirurgica e divenni l’anestesista più richiesto dai chirurghi dei diversi reparti. Spinto dalla carità cercavo di far bene le cose e non mi preoccupavo del guadagno, elementi questi che furono entrambi molto apprezzati da tutti.

Il lavoro in clinica mi prese talmente che riuscii solo a tenere i contatti essenziali col Movimento, in pratica solo con Ginetta quando era a Milano.

Anche con X… mi incontravo solo al raduno della comunità e qualche volta ci sentivamo per telefono. “Mio padre vuol conoscerti” – mi disse un giorno – ed io, rubando un pomeriggio alla clinica, mi recai da lui. Fu un colloquio bellissimo, tutto spirituale, che mi riempì l’anima e me la dilatò sulla Chiesa passata, presente e futura. Veramente un patriarca, come aveva detto X… Mai avrei immaginato questo in un padre di famiglia. Di X… mi parlò solo per dirmi che gli sembrava fatta per essere una brava mamma. Quanto a me, seguissi “la mia strada”. Quando uscii dal colloquio ero sicuro che la mia strada non era il matrimonio.

Intanto nella clinica dove lavoravo avvennero degli spostamenti. L’aiuto-chirurgo vinse la cattedra di Pisa e chiese a me se volevo seguirlo. Mi offriva una bella carriera, un buon stipendio e la docenza. A me però interessava sapere cosa ne pensasse Ginetta e gliene parlai. Mi ascoltò a lungo e poi mi disse: “Porterai l’Ideale a Pisa”. E così partii.

Continua

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About Luca Tamburelli

Sposato e padre di fue figli, vivo in Francia, a Annonay, presso Lione. Sono amico di Maras e di moltissimi suoi amici.

Comments

  1. Margaret Coen says

    Ciao carissimo Luca e ancora un profondo “grazie” per tutto quanto che fai e in modo particolare per tutte le belle cose che fedelmente, ci mandi su Maras. Sono sempre tesori preziosi che mi spingono a vivere anch’io in maniera autentica.