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L’orchestra
Durante l’estate mi concedetti una sosta dallo studio e ne approfittai per aderire a un invito fattomi di partecipare come violino di fila, a una tournée di concerti, con una piccola orchestra messa insieme un po’ alla buona.
Mi trovai, quasi senza prove, a cimentarmi con l'”Incompiuta” di Schubert (che sudata!), con la “Missa pontificalis prima” di Perosi e la “Danza delle ore” dalla Gioconda di Ponchielli, la stessa opera che all’età di sette anni mi aveva così fortemente impressionato.
L’esperienza dell’orchestra è molto diversa se guardata nel suo insieme, come avviene per il pubblico, o nei particolari, come può essere per i singoli esecutori. Però è sempre entusiasmante perché dà l’idea del “corpo” e fa vivere “a corpo”, un corpo fatto di tante membra che funziona solo se c’è unità fra tutte. Con le mie nozioni di medicina capivo molto bene la differenza fra membro e parte: il primo è unito, la parte è divisa. E vedevo, in pratica, che quando uno si limitava alla sua parte, considerandosi appunto parte e non membro – invece di aver in sé tutti gli altri ruoli, come fa il direttore d’orchestra – l’armonia non si raggiungeva e l’effetto sul pubblico non c’era. L’effetto, che poi strappa l’applauso, nasce da un ciak che fonde misteriosamente il direttore e i membri dell’orchestra, un ciak occasionato dalla musica, ma attuato dall’apporto di tutti. E’ un qualcosa che trascende il singolo e anche la somma dei singoli, una dimensione nuova che si raggiunge e nella quale i singoli trovano il loro senso pieno. Certe note isolate degli ottoni, per esempio, certi pizzicati sempre uguali dei contrabbassi trovano non nel canto, cui fanno da accompagnamento, ma nell’armonia che ne risulta, il loro significato, la loro bellezza, la loro novità.
Questo, che prende il pubblico non meno degli orchestrali, fu per me un’esperienza fortissima, un’esperienza di vita che mi fece riprendere lo studio della medicina in una prospettiva nuova: cercar di conoscere bene a quali condizioni la vita dell’uomo si esprime e cosa deve fare il medico per aiutare o ripristinare la salute che della vita è una manifestazione.
Capii, in pratica, che come nell’orchestra i vari strumenti devono essere in armonia non solo fra loro ma anche con la musica loro proposta – che sola dà senso al loro essere e al loro suonare – così quel ciak misterioso che è la salute si realizza se tutti gli organi funzionano in armonia fra loro e in armonia a un programma – il programma della vita – che dà significato, superandoli, a ciascuno e all’insieme.
Capii quindi, da un lato l’assurdità di considerare un organo senza tener conto degli altri; dall’altro la necessità di capire il programma dell’uomo intero – e non solo della somma dei suoi organi – per poter inserirvisi dentro e aiutare efficacemente il suo sviluppo. Ed era evidente per me, che avevo tanto osservato gli animali, la sostanziale differenza fra il programma di vita di uno di questi e quello di un uomo, per la presenza in quest’ultimo di un orientamento spirituale che coinvolge e trascende il determinismo delle leggi fisiche e biologiche.
Questo orientamento lo sentivo in me e mi dava la forza di non lasciarmi andare, come tanti della mia stessa età, a piaceri facili o a comportamenti non costruttivi. E lo notavo anche in altri universitari, per esempio Guglielmo Boselli, che giravano attorno all’Oratorio che da anni frequentavo.
Per cui un giorno con alcuni di loro decidemmo di iscriverci alla FUCI, anzi, di costituirne a Carpi una sezione.
La preparazione all’incontro
Cominciammo i “gruppi del Vangelo”. Ogni settimana qualcuno si preparava su un brano del Nuovo Testamento che poi commentava suscitando un dibattito fra i presenti.
Io non ero il presidente del gruppo, sentivo però molto fortemente la responsabilità della buona riuscita di questi incontri e facevo di tutto per trovare sempre nuovi elementi di interesse. Un giorno seppi che si teneva ad Assisi una settimana di studio sulla fede. Siccome i rapporti fra scienza e fede erano un problema per molti, decisi di andarvi anch’io.
Assisi si mi fece una grande impressione, soprattutto le “Carceri” dove tutto parlava di raccoglimento, di armonia, di santità. Poi la cripta con la tomba del Santo, così essenziale, così austera! Qui, una sera ascoltai una meditazione che un sacerdote faceva sulla fede. Non ricordo le sue parole ma ho vivo come fosse ora ciò che, mentre parlava, mi si chiarì dentro. La fede è dire a Qualcuno: “credo in te”, cioè ti ascolto, ti obbedisco, ti amo.
Mi bastò per tutta la sera e per tutta la notte! Al mattino presto mi alzai, uscii da solo e salii alla Rocca. L’aria fredda mi faceva lacrimare, ma dentro bruciavo di commozione.
Avevo una gran voglia di comunicare, ma non sapevo cosa, né a chi, volevo essere solo, ma la solitudine mi provocava sofferenza. Avrei desiderato stare sempre lassù e contemporaneamente sentivo di tornare in città con gli altri. Con l’intelligenza notavo tante contraddizioni, ma nel mio essere sperimentavo la pace.
Quando ridiscesi ad Assisi i miei compagni mi cercavano; non dissi nulla, ma uno di loro si accorse che qualcosa era successo. Saltai la colazione, non riuscii a seguire le conferenze: mi parevano così complicate e le parole così poco incisive! Tornai alla cripta; era tutta illuminata. Non avevo notato la sera prima che ci fosse tanta luce. Stetti lì a lungo con l’impressione di un colloquio che unificava tutte le mie facoltà, dando luce alla mente, vigore al corpo, sicurezza alla volontà: Signore, io credo in te! Che “presenza” la fede!
Quando uscii, mi domandai: “cosa racconterò a Carpi?” Ma la risposta non venne. Comprai allora qualche brochure, mi procurai gli “Atti” della settimana di studio e tornai a casa.
Il giorno della laurea fu una grande delusione per me. Mi trovai davanti una commissione distratta e accaldata (era il 18 luglio e faceva molto caldo) unicamente preoccupata – si sarebbe detto – di finire presto. E io che avevo preparato una tesi sperimentale che mi era costata molti mesi di lavoro! Quello che dissi non fu ascoltato e la stretta di mano che ne seguì con le congratulazioni “per aver conseguito il massimo dei voti e la lode” non cambiò l’impressione che fosse tutta una formalità. Soprattutto mi si confermò ciò su cui già avevo riflettuto durante gli anni dì università: che quel modo di essere “maestri” – così chiamavamo allora i professori in cattedra – non poteva rappresentare per me un modello da seguire, ne una realizzazione che giustificasse il termine “arrivati” che correntemente si attribuiva loro.
Uscito dall’aula, andai in una chiesa e mi fermai a lungo, solo. Non ricordo cosa dissi, né cosa pensai, ma c’era in me una risoluzione forte: fare della mia professione una cosa vera, una realizzazione umana e cristiana che rappresentasse anche per altri un esempio e una testimonianza.
Alcuni mesi più tardi, dopo ricerche varie, mi trovai a Milano, iscritto alla specializzazione in anestesia, deciso ormai a intraprendere una carriera che si presentava allora nuova e promettente.
Vivevo modestamente in una stanzetta in affitto e consumavo i pasti alla “Cardinal Ferrari” un pensionato gestito dai Paolini, vicino alla clinica chirurgica che frequentavo. La mia giornata era molto piena e alla sera, dopo cena, andavo presto a letto.
L’incontro
Alla Cardinal Ferrari c’erano altri giovani professionisti – Oreste Basso, Piero Pasolini, Giorgio Battisti – tutti cristiani praticanti con i quali si fraternizzò ben presto. Prima di andare a riposare si parlava di politica, di economia, di religione e qualche volta anche di concerti alla Scala ai quali l’uno o l’altro aveva partecipato. Io rizzavo gli orecchi – la musica restava sempre la mia passione segreta – ma cercavo di non manifestarlo, data la scarsità delle mie finanze.
Una sera, appena entrato per la cena, mi sentii rivolgere una domanda: “Sei libero questa sera?”. Avendo questa richiesta tutta l’aria di un invito, pensai si trattasse della Scala e risposi prontamente di sì. “Vorrei presentarti una signorina…” Per mascherare il mio disappunto, cercai di inventare una scusa che mi permettesse di ritirarmi in buon ordine, ma la signorina in questione era già lì, di fronte a me, con la mano tesa: “sono Ginetta!” mi disse. “Piacere”, risposi distrattamente. “Sono contenta di conoscerla” replicò lei e fui colpito dal suo accento di sincerità. La cosa mi incuriosì e mi sedetti a tavola. Notai subito che attorno erano sedute molte persone, fra cui i miei amici ai quali lei aveva evidentemente già iniziato a parlare. Non volendo interrompere il discorso, e non volendo neanche entrarvi dentro, mi limitai a osservare.
Non avrei saputo dire quanti anni aveva, perché appariva giovane e matura al tempo stesso, né avrei saputo classificarla come professione (impiegata? studentessa?) cosa che di solito mi riusciva facile. Neppure la provenienza appariva evidente; mi stupì però che dicesse che a Milano aveva trovato tanti semafori, al che mi parve di poter dedurre che non veniva da una grande città. Ma le mie deduzioni non ebbero tempo di andar molto oltre perché fui colpito da quello che disse subito dopo: attraversando un crocicchio quando il semaforo era rosso, trovò dall’altra parte dell’incrocio un vigile che volle farle una contravvenzione. E lei subito pensò: “ma guarda, anche qui c’è qualcuno che esprime la volontà di Dio e la fa rispettare!” Fu per me un autentico shock. Se qualche volta mi era capitato di passare un semaforo rosso, avevo sempre trovato una scusa (non ho visto, sono medico, devo correre in fretta) e soprattutto mai avevo pensato che un vigile esprimesse la volontà di Dio.
Ero ancora sotto questa impressione quando Ginetta disse di aver visto, subito dopo, un ragazzino che scriveva con un carbone sul muro di una casa: abbasso Stalin. Gli aveva chiesto se sapeva chi fosse e, alla risposta che Stalin era il capo dei comunisti, lei aveva replicato: “è tuo fratello!”
Fu un nuovo colpo. Eravamo nel 49 e avevo ancora fresco il ricordo della campagna elettorale dell’anno precedente nella quale si era parlato tanto di Stalin, ma nessuno aveva affermato: è tuo fratello!
Lo stupore iniziale stava trasformandosi in meraviglia e l’impressione di sincerità avuta fin da principio stava diventando certezza di verità. Quello che Ginetta diceva era vero!
Mi disposi allora ad ascoltare con un atteggiamento diverso, ma proprio in quel momento si fece avanti il cameriere per far notare che il secondo si freddava (tutti ci eravamo fermati al primo) e Ginetta si ricordò improvvisamente di un appuntamento per un’ora già passata… Si terminò quindi in gran fretta e tutti, io compreso, ci precipitammo su un tram che ci portò vicino a una chiesa accanto alla quale un gruppo di persone ci attendeva. Nessuno parve accorgersi del ritardo ed entrati in una saletta, cominciò l’incontro.
Fu lì che per la prima volta sentii parlare dell’Ideale e di Chiara, e ascoltai il racconto di una storia – gli inizi del movimento – che mi investì con la forza di un messaggio rivoltomi personalmente. Me ne resi conto ancor meglio alla fine dell’incontro, constatando che molti fra i presenti non avevano provato quello che avevo sentito. Erano rimasti infatti quelli di prima, con qualche nozione in più, mentre io mi sentivo trasformato e nuovo, con una gran voglia di conoscere di più, di fare di più, di vivere di più. Provavo una strana sensazione stimolante e benefica al tempo stesso, dove pace e timore, appagamento e ricerca, gioia e dolore erano mescolati e trascesi in un benessere spirituale e fisico che aveva il sapore delle “beatitudini” e la novità del lieto annuncio del Vangelo.
Una nuova vita
Arrivato a casa, aprii la Bibbia e vi cercai la frase che più volte era stata ripetuta durante l’incontro: “Qualunque cosa avete fatta al più piccolo dei miei fratelli, l’avete fatta a me”. Volevo verificare se fosse proprio così, perché intuivo che da lì avrebbe dovuto partire la mia nuova vita. La trovai e la meditai a lungo: era proprio così, senza nessun “come” o “se” che ne avrebbero potuto attenuare l’assolutezza. Allora decisi di cominciare. Alzandomi cercai di non svegliare l’anziana affittacamere bisbetica e sempre scontenta. Salendo sul tram ringraziai, per la prima volta, il controllore quando mi porse, senza guardare, il biglietto; entrando in ospedale salutai per primo il portiere, ritenuto da tutti persona poco raccomandabile, e gli chiesi come stava e come aveva dormito la notte.
Dal suono della mia voce e da come mi rispose stupito mi accorsi di esser cambiato e questa impressione si ripeté poco dopo in sala operatoria quando mi trovai a considerare positivamente situazioni e persone che, ancora il giorno prima, avevo criticato e giudicato male.
“Se gli uomini sono cattivi è perché non sono stati abbastanza amati”. Questa frase che avevo udita spesso mi apparve ora in tutta la sua evidenza. Si trattava dunque di cambiare “dentro!”, di amare veramente ognuno e l’atteggiamento esterno ne sarebbe stata l’espressione visibile ed efficace. Il dilemma essere-agire non era più tale. Ciò che dissociava gli uomini e smembrava la società appariva risolto.
Si trattava soltanto di continuare ora a unificare tutto e tutti con un amore che solo Dio poteva avere e dare. Come aveva fatto Gesù. E accostandomi all’Eucaristia con una fede – direi una certezza – nuova, Gli chiesi che fosse Lui a informare la mia vita – il mio essere e agire – per realizzare con Chiara e le sue prime compagne quell’unità di cui la sera prima Ginetta aveva a lungo parlato. La giornata fu lunga e impegnativa. La quasi certezza che avevo avvertito al momento dell’Eucaristia, non era apparsa più tale in diverse situazioni presentatesi durante il giorno. Per cui arrivai alla sera stanchissimo e con un gran desiderio – direi un bisogno – di incontrare di nuovo Ginetta. La trovai come la sera prima, sorridente e serena, attorniata da un gruppo più numeroso di persone e le chiesi come facesse lei a mantenersi così, mentre io ero visibilmente stanco. Mi parlò dell’attimo presente e la cosa mi parve chiarificante. Ripartii soddisfatto. Il giorno dopo però non fu facile vivere l’attimo presente; spesse volte me ne dimenticai e qualche volta non mi sembro possibile. “Per esempio” – dissi a Ginetta incontrandola di nuovo – “quando qualcuno commette una ingiustizia o compie un atto immorale (era l’esperienza della giornata) come posso amarlo?” Sul momento non rispose, ma poco dopo, al gruppo riunitosi attorno a lei, parlò di Gesù Abbandonato. Io ebbi l’impressione di una luce così forte che non solo il mio problema fu risolto, ma tutti i problemi, compreso quello del dolore – che fin da ragazzo mi aveva spinto verso la professione medica e che restava per la stragrande maggioranza degli uomini un problema non risolto – si erano chiarificati.
E tutto era spiegato da quella luce: la vita stessa, l’amore!
Tutto appariva chiaro e io stesso mi sentivo chiaro, tutto pieno di luce. “Questa sera sei nato” mi disse Ginetta. Io avevo l’impressione di essere “nato” qualche sera prima, quando avevo sentito raccontare la storia dell’Ideale; era però vero che solo ora provavo una felicità piena che si identificava con la chiarezza (ma le parole non rendono l’impressione). Per cui ritenni anch’io di essere nato quella sera, di cui però non ricordo la data. Era comunque la fine del ’49.
Dopo qualche giorno Ginetta tornò a Trento e noi – Oreste, Piero, Giorgio e io – continuammo ad incontrarci ogni sera per “fare unità”. Non veniva fuori granché, anche se ci raccontavamo le nostre esperienze e c’era tanta buona volontà da parte di ciascuno. Mettevamo in comune soprattutto i nostri fallimenti, questo, oltre a tenerci in umiltà, denotava che almeno l’idea di come avremmo dovuto vivere c’era entrata dentro. Comunque i nostri incontri terminavano sempre col programmare un ritorno di Ginetta o una nostra andata a Trento.
Intanto io avevo più volte invitato Guglielmo che frequentava anche lui la Cardinal Ferrari a conoscere “una signorina di Trento”. Una sera finalmente accettò, a malincuore – mi disse poi – perché un invito così formulato né gli garbava, né se lo aspettava da me. E al ritorno di Ginetta era presente anche lui. In quel periodo scrissi anche a mia madre parlandole della mia “scoperta” e, sapendo che stava per recarsi a Roma a un congresso del CIF, le diedi l’indirizzo del focolare.
Dopo una settimana la vidi arrivare a Milano, tutta raggiante, in compagnia di una suora alla quale già aveva parlato del focolare e che voleva far conoscere a Ginetta. Da quel momento gli incontri e la corrispondenza con mia madre assunsero un carattere nuovo e il rapporto fra noi si spostò su un altro piano.
Qualcosa di nuovo era avvenuto anche per quel che riguarda il mio stato fisico. Prima pensavo molto alla mia salute, mi proteggevo con sciarpa, cappello e guanti, e tenevo una dieta rigida per una sospettata ulcera duodenale. Ora il nuovo genere di vita mi rendeva spesso impossibile pensare, per esempio, a coprirmi quando dalla sala operatoria, con 22 gradi di temperatura, venivo chiamato d’urgenza in un padiglione al di là di un cortile pieno di neve. Allo stesso modo non mi veniva neppure in mente di mettere delle riserve quando, visitando un ammalato a casa sua, questi mi chiedeva di fermarmi a cena offrendomi di cuore quel poco o tanto che aveva. E constatai più tardi, con sorpresa, che mi erano spariti i dolori allo stomaco e che tante precauzioni di prima contro il freddo erano ora superflue. Da quel tempo infatti non portai più né sciarpa né cappello né guanti.
Un’altra grande novità fu per me il “bisogno” di partecipare ogni giorno alla Messa e di cibarmi dell’Eucaristia. Nessuno me lo aveva detto ma mi sembrò normale, avendo deciso di amare Gesù nel prossimo, amarLo nell’Eucaristia dove Egli è in corpo, sangue, anima e divinità. Per questo cominciai ad alzarmi prima al mattino per recarmi in chiesa, rinunciando spesso alla colazione per non far tardi al lavoro.
Prime esperienze
Nella clinica che frequentavo si dava molta importanza alla pratica, mentre lo studio teorico dell’anestesia era lasciato alla libera iniziativa degli specializzandi. Fu un’ottima occasione per concentrarmi sugli ammalati – diventati ormai “prossimi” – e per cercare di conoscerli e di trattarli con quell’amore sul quale, alla fine della vita, sarei state esaminato. Così facendo mi trovai ben presto avvantaggiato sui colleghi che, vedendo nei pazienti solo “casi” più o meno interessanti, non ottenevano i miei stessi risultati. Allo stesso modo cercavo di star vicino al capo-anestesista per aiutarlo nel suo lavoro, ed anche qui venni a scoprire tante cose che nessun libro riportava, tanto più che di libri di anestesia non ne esistevano. C’erano soltanto riviste, molto costose, nessuna in italiano, che occorreva richiedere all’estero e sulle quali, solo ogni tanto, si trovava un articolo interessante. Per cui occorreva tempo per scegliere, tradurre, per confrontare, e il profitto alla fine non era molto. Io poi col nuovo genere di vita, che mi faceva scoprire dappertutto prossimi bisognosi di aiuto, non riuscivo facilmente a concentrarmi in una preparazione teorica, tra l’altro non molto considerata dai nostri insegnanti.
Però, avvicinandosi gli esami, mi domandai se dovessi far qualcosa anche in questo senso. Non ebbi però modo di darmi una risposta perché i miei colleghi, sempre più preoccupati e nervosi cominciarono, a turno, a farmi partecipe del motivo della loro tensione: un articolo che non erano riusciti a capire, una formula che non ricordavano, un metodo che non appariva chiaro.
Praticamente la settimana prima degli esami fui quasi costretto, per la carità nei loro confronti, ad ascoltarli, a riesaminare con loro articoli, formule e metodi, e siccome le riviste erano già tradotte e molte nozioni già elaborate, mi feci senza volerlo un’ottima preparazione con relativamente poco sforzo. All’esame fummo tutti promossi ed io primo in graduatoria.
Questo risultato fu notato dal direttore della clinica che, dopo pochi giorni, mi offrì un lavoro con lui in una casa di cura privata. Era un posto molto ambito e ben retribuito, per cui molti si felicitarono con me. Tra loro c’era un collega, alla vigilia delle nozze, che non aveva nessuna sicurezza di sistemazione futura. Mi fu spontaneo quindi offrire a lui quel posto, e siccome il direttore voleva proprio me, feci di tutto per mettergli in luce le qualità del mio collega al punto che lo persuasi ad assumerlo. “O è matto, o c’è qualcosa – fu il commento che udii fare, non visto, da due colleghi che parlavano fra loro – ma siccome matto non è…” e non finirono la frase.
Questo “qualcosa” lo notarono molti e si rifletté anche sulla professione libera che occasionalmente esercitavo. Un giorno venni a conoscere una giovane donna, madre di due figli, che soffriva di insonnia. Aveva consultato molti medici, ognuno dei quali le aveva consigliate un sonnifero diverso, ma l’insonnia era rimasta. Per di più si era creata in lei una totale sfiducia nei medici e nelle medicine. Ascoltandola attentamente tirò fuori che il marito era disoccupato e che i bambini non stavano bene. Pensai che quella preoccupazione poteva essere la causa della sua insonnia. Infatti quando dopo alcuni giorni, attraverso i miei amici riuscii a trovare un lavoro per il marito e una sistemazione per i bambini, la donna ritrovò il sonno senza bisogno di farmaci. La cosa fu risaputa e aumentò rapidamente il numero di coloro che volevano essere visitati da me. Furono altrettante occasioni per mettere in pratica la carità e dar testimonianza, specialmente a chi mi conosceva prima, della nuova vita che avevo iniziato.
Una pausa al lavoro intensissimo fu rappresentata dall’estate che trascorsi, come assistente medico, in una colonia marina. Intanto Oreste, Piero e Giorgio avevano programmato le vacanze a Tonadico e mi invitarono ad andare con loro ma io, a causa dell’impegno preso in precedenza, dovetti rinunciare. Il collegamento con Ginetta fu mantenuto attraverso lettere settimanali che portavano la “parola di vita” e qualche notizia; lettere e notizie che trasmettevo a Guglielmo che stava prestando il servizio militare.
La colonia marina di Sarzana era costituita da un centinaio di bambini, da dieci vigilatrici tutte sui vent’anni, da un direttore, un cappellano – entrambi anziani – e da me. Essendo io l’unico giovane in mezzo a tante ragazze e avendo subito suscitato una certa curiosità a causa della Comunione quotidiana, cercai di tenermi appartato passando molto tempo in stanza a leggere e a scrivere.
Ma una notte una vigilatrice venne a svegliarmi perché un bambino stava male. Aveva la febbre alta e delirava. Non sapendo di cosa si trattasse, diedi un antipiretico e iniettai penicillina. La signorina mi assicurò di continuare le somministrazioni – in quel tempo la penicillina veniva iniettata ogni tre ore – ma io non ero tranquillo e stetti alzato tutta la notte per sorvegliare le condizioni del bambino. “Gli altri medici non facevano così – disse meravigliata la vigilatrice – perché non va a riposare?” Le parlai del “prossimo” e le dissi che cercavo di essere coerente col cristianesimo che professavo. Allora X… mi parlò di sé, della sua famiglia (18 fratelli oltre i genitori e una zia), del papà ormai anziano – un vero patriarca – pieno di saggezza e di esperienza, del cristianesimo che tutti insieme si aiutavano a vivere e della pace che regnava fra tutti, pur fra le immancabili difficoltà. Mi disse dell’amicizia che aveva legato suo padre a Pio X e al Cardinal Ferrari e del suo desiderio di essere “più brava” per essere all’altezza di ciò che papà e mamma le insegnavano continuamente.
Dal racconto di come si comportava coi fratelli e le sorelle, tutti più giovani di lei, mi pareva che fosse già abbastanza brava, e così le parlai dell’Ideale e della nuova vita che avevo conosciuto. Fu molto bello, e al mattino, che arrivò in un attimo, eravamo entrambi felici. Se ne accorsero tutti in colonia e questo mi consigliò di raddoppiare la prudenza, anche se non mi sarebbe sembrato vero di avere qualcuno con cui parlare liberamente. Ne scrissi a Ginetta e ne scrissi anche a un sacerdote di Carpi, amico di Guglielmo e mio, con cui un giorno si era parlato a lungo in FUCI sulla “scelta dello stato”.
Lui sosteneva che un giovane deve cercare una ragazza, se vuole sposarsi; io replicavo che bisognava solo stare attenti a ciò che Dio faceva capire. Siccome in quel mese si viveva la parola di vita “cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù” gli scrissi che in questa frase trovavo un’ulteriore conferma a ciò che già prima pensavo. Mentre però scrivevo, fui come folgorato da un’idea: la ragazza per me, Dio forse me l’aveva fatta trovare! Entrai in crisi perché, anche se confusamente, l’incontro con l’Ideale l’avevo percepito come una chiamata. Cosa significava ora questa nuova esperienza? Cercai di calmarmi e di non pensare. “A chi mi ama mi manifesterò” questa frase di Gesù che avevo sentito tante volte, era ora il momento di viverla più che mai. Mi buttai a giocare coi bambini sulla spiaggia, trovai un buon rapporto col direttore, e passai ore intere col cappellano che aveva tante cose da raccontare. Intanto X… scrisse a Ginetta la quale le rispose fissandole un appuntamento per dopo le vacanze.
Al ritorno dalla colonia estiva, ottenni un posto di assistente nella clinica chirurgica e divenni l’anestesista più richiesto dai chirurghi dei diversi reparti. Spinto dalla carità cercavo di far bene le cose e non mi preoccupavo del guadagno, elementi questi che furono entrambi molto apprezzati da tutti.
Il lavoro in clinica mi prese talmente che riuscii solo a tenere i contatti essenziali col Movimento, in pratica solo con Ginetta quando era a Milano.
Anche con X… mi incontravo solo al raduno della comunità e qualche volta ci sentivamo per telefono. “Mio padre vuol conoscerti” – mi disse un giorno – ed io, rubando un pomeriggio alla clinica, mi recai da lui. Fu un colloquio bellissimo, tutto spirituale, che mi riempì l’anima e me la dilatò sulla Chiesa passata, presente e futura. Veramente un patriarca, come aveva detto X… Mai avrei immaginato questo in un padre di famiglia. Di X… mi parlò solo per dirmi che gli sembrava fatta per essere una brava mamma. Quanto a me, seguissi “la mia strada”. Quando uscii dal colloquio ero sicuro che la mia strada non era il matrimonio.
Intanto nella clinica dove lavoravo avvennero degli spostamenti. L’aiuto-chirurgo vinse la cattedra di Pisa e chiese a me se volevo seguirlo. Mi offriva una bella carriera, un buon stipendio e la docenza. A me però interessava sapere cosa ne pensasse Ginetta e gliene parlai. Mi ascoltò a lungo e poi mi disse: “Porterai l’Ideale a Pisa”. E così partii.
A Pisa
Per il nuovo cattedratico “gli anni di Pisa” – come li chiamava lui nella speranza che fossero pochi – non furono facili. E lo staff che lo aveva seguito, di cui facevo parte anch’io, si trovò a dover iniziare un lavoro impegnativo, poco remunerato e di nessuna soddisfazione, con le conseguenze che si possono immaginare specialmente se si pensa che a tutti erano state fatte le stesse promesse: bella carriera, buon stipendio e docenza. (I degenti al nostro arrivo erano tre!) Per me le cose erano diverse. Intanto ero venuto per “portare l’Ideale a Pisa” e poi avevo già una certa esperienza di Gesù Abbandonato che, se mi si era manifestato all’inizio come luce, non aveva tardato a rivelarsi come dolore. Naturalmente non potevo dire a tutti che cosa mi spingeva a vedere sempre le cose “con ottimismo” – come dicevano loro. Trovavo volta a volta frasi diverse (per esempio: “è bello essere dei pionieri” oppure “quando torneremo a Milano ne parleremo come di tempi eroici” o più semplicemente “c’è chi sta peggio di noi”) e così traducevo in termini accessibili a tutti quell’alchimia che cercavo di operare ogni momento in me: trasformare il dolore in amore.
Abitavo in clinica e vi consumavo i pasti. La colazione invece la facevo fuori e così avevo una scusa poter uscire al mattino e recarmi in Cattedrale alla Messa delle 7.
A poco a poco la presenza del nuovo staff si fece notare e le persone cominciarono ad affluire. C’erano parecchie urgenze ed essendo io l’unico anestesista, divenne difficile per me essere libero ogni giorno alle sette. Per cui appena potevo mi recavo in una chiesa e chiedevo l’Eucarestia.
Questo in una città relativamente piccola com’era Pisa fu subito notato e riferito. Me ne accorsi dal modo nuovo – fra lo stupito e il curioso – con cui tutti, dal direttore al portiere, mi guardavano ed evitavano di chiedermi dove fossi stato, se rientravo in ritardo, o perché non volessi prendere nulla dopo mezzanotte (allora il digiuno eucaristico era richiesto da quell’ora).
C’erano in clinica due fratelli, Lucio e Publio, uno laureato da poco, l’altro studente in medicina, che seguivano con interesse il miglioramento operato dal nuovo staff e più volte avevano espresso – più coll’atteggiamento che con le parole – una certa simpatia per il mio modo di vivere. Un sabato pomeriggio mi invitarono a salire con loro sulla cima di un monte nelle Alpi Apuane per assistere alle 3.30 al sorgere del sole. Era un tipo di spettacolo che non mi entusiasmava, soprattutto perché mi sentivo quel giorno abbastanza stanco, e poi avevo appena ricevuto una lettera da Guglielmo che mi comunicava l’apertura del focolare di Firenze ed io ci volevo andare. Tuttavia non volli rifiutare l’invito e, dimenticando la stanchezza, dissi soltanto che l’indomani avrei dovuto essere a Firenze. Furono d’accordo, tanto più che al pomeriggio sarebbero tutti rientrati a Pisa. Così partimmo. Arrivati ai piedi della montagna scoprii che eravamo parecchi, ragazze e ragazzi, e seppi che dopo la salita ci aspettava un rifugio dove riposare alcune ore in attesa dell’alba. Ma giunti al rifugio, lo trovammo così sporco che nessuno volle coricarsi in quei letti. Si preferì aspettare seduti per terra. Ma la noia era visibile in tutti e io per riempire l’attesa, pensai di raccontare qualche fatterello comico di cui ero stato testimone. Riuscii così bene che volarono tre ore, al punto che rischiammo di non assistere al sorgere del sole.
Publio e Lucio
Publio e Lucio furono molto meravigliati di conoscere in me un aspetto che non immaginavano, ma il più meravigliato fui io che per la prima volta assistevo a qualcosa che non sapevo spiegarmi. Poco dopo però quando mi accomiatai menzionando l’impegno di Firenze, Publio mi disse “vengo con te!” ed ebbi l’impressione di una chiamata. In viaggio gli parlai dell’Ideale, poi andammo in focolare e da quel giorno a Pisa fummo in due.
Fra i colleghi dello staff venuti da Milano ce n’era uno particolarmente vivace ed intelligente che, abituato al dinamismo di Milano, mordeva un po’ il freno in una città tranquilla come Pisa. Si sfogava così a correre in macchina. Naturalmente non gli piaceva essere da solo e gradì molto la mia compagnia in alcuni viaggi-corsa nelle città vicine. Quando mi chiese come mai non avessi paura di salire in macchina con lui, dato che nessuno – a cominciare dalla fidanzata – ci andava volentieri, gli parlai di Gesù nel prossimo e dell’amore che cercavo di avere per ognuno. Capì subito molto più di quello che pensavo – capì anche che non poteva mettere a repentaglio la mia vita – e cambiò molti suoi comportamenti, sia nel modo di guidare sia di trattare con i pazienti e si fece banditore – opportune et importune – della “novità” che lo aveva colpito. Più tardi notò il rapporto che avevo con Publio e… fummo tre. Seguirono poi Lucio e Flavia ed in poco tempo la clinica divenne un centro di vita per la nascente comunità di Pisa.
Lucio era fidanzato – fidanzato “grave”, dicevano scherzosamente i colleghi che, conoscendo la sua serietà, vedevano iniziato in lui un processo ormai irreversibile – e naturalmente fece conoscere lo spirito che ci legava alla sua ragazza, e lei ne parlò in famiglia. Fummo allora tutti invitati a un thé, nel corso del quale con l’entusiasmo – e l’imprudenza – dei neofiti qualcuno parlò di lasciare padre, madre… e fidanzata. La cosa spiacque ai genitori, soprattutto alla madre che vedendo che svaniva il matrimonio della figlia (Lucio rappresentava un ottimo partito) divenne ben presto una accanita avversaria del Movimento, e ne parlò a tanti, a conoscenti e a non conoscenti, a sacerdoti e a carabinieri, alle persone presso cui faceva la spesa e al portiere della clinica dove io lavoravo.