Maras e Enrico Cavallini – Seconda parte

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Enrico Cavallini (1970)

Enrico Cavallini (1970)

Seconda parte

Dalla biografia su Enrico Cavallini “Come una volpe dal fiuto sottile” ad opera di Marco Bernardini, edito da Città Nuova, abbiamo trovato un intero capitolo, il terzo, molto interessante, dedicato al rapporto tra Maras e Cavallini che riportiamo integralmente, suddiviso in tre pubblicazioni che si susseguiranno nel blog. (Vedi anche l’introduzione*)

“Una figura speciale”

Segue dalla prima parte:

…Ritorniamo ad Enrico. La laurea fu dura per lui perché, assieme allo studio, c’era il lavoro che gli permetteva di mantenersi: come già sappiamo faceva il marcatempo in uno stabilimento industriale spezzino. Vita rude, colma di fatica. Poco sonno e molti spostamenti. Quando arrivò il sospirato titolo di studio, si guardò intorno e conobbe una profonda tristezza perché si accorse che erano molto scarse le possibilità d’impiego. Avrebbe voluto spaccare il mondo, gettare le bombe come aveva fatto nella dura esperienza partigiana. Morte e distruzione procurò la guerra ma ora, tutto finito, il mondo non era cambiato. Le prime esperienze come medico furono deludenti perché contrassegnate da una situazione di grande incertezza. Il giovane dottore capì allora che per poter avviare in modo promettente il suo lavoro di medico ci voleva una specialità. L’anestesia era una branca nuova in medicina, di fatto stava nascendo in quel tempo con tutte le prospettive di sviluppo facilmente immaginabili. Enrico colse al volo tale opportunità e, nonostante che fosse già sposato, si iscrisse alla scuola più vicina: Firenze. Era il 1952, l’anno dopo la laurea.
Iniziò con entusiasmo ma ben presto si accorse di una grande difficoltà che si presentò davanti a lui: la frequenza. Si rese conto, con amarezza, come gli fosse impossibile assicurare quella assidua presenza, necessaria per seguire con profitto il corso che aveva scelto. Per raggiungere la clinica, infatti, ci volevano quattro ore di treno e altrettanto per il ritorno portandosi dietro un panino infarcito di qualche cosa. Il tempo che poteva dedicare allo studio e all’apprendimento era molto ristretto ed esso pure condito di stanchezza, di sonno e di fame. Rabbia e delusione covavano in lui. Com’è possibile, si chiedeva, che dopo tanti sacrifici, siamo sempre al punto di partenza? Il carattere deciso e indomito molto proclive a vivere intensamente le varie emozioni, era fortemente messo a dura prova da queste ripetute e avverse circostanze. In sostanza alla scuola fiorentina non imparava nulla e tutto si presentava come fatica sprecata. Che fare? Come la volpe che ferma, fiuta l’aria e osserva, così Enrico si guardava attorno per cogliere dei segnali. Ne arrivò uno molto importante, decisivo, destinato a dare una svolta alla sua vita e non soltanto professionale. Cosa avvenne? Facciamocelo raccontare direttamente da lui mediane uno scritto che predispose, in anni successivi, raccontando la sua storia:

In quei mesi si tenne il Congresso nazionale d’anestesia, nel corso del quale mi fece un’impressione profonda uno dei relatori: il suo modo di esporre i temi scientifici con semplicità riducendo tutto all’essenziale, i suoi occhi luminosi e il suo vestire semplice ma armonioso. Chiesi chi fosse. Mi dissero che era un anestesista milanese in procinto di trasferirsi a Pisa al seguito di un noto chirurgo. Il ricordo di questo incontro mi tornò alla mente quando decisi di non frequentare più Firenze e di cercare una sede più vicina alla Spezia. Decisi allora di andare a parlare con quell’anestesista che mi aveva colpito al Congresso e che, nel frattempo, si era trasferito stabilmente nella città toscana. Poche erano le possibilità di successo, a causa di contrasti tra la scuola alla quale ero iscritto e la clinica pisana. Ma partii lo stesso come guidato da una forza interiore.
Arrivato alla clinica, mi dissero che per quel giorno non era possibile parlare con lui perché stava già operando; ma decisi di attendere pazientemente nel corridoio. Passarono le ore. Quando ormai ero vicino a rinunciare, un infermiere uscito dalla sala operatoria mi chiese cosa volessi; dopo la mia risposta, mi assicurò che sarei stato ricevuto, poiché quell’anestesista era una persona particolarmente gentile. Dopo alcuni minuti si aprì la porta della sala operatoria e ne uscì quel medico che riconobbi per gli occhi sereni e luminosi. Mi venne incontro sorridente, credevo che si sbagliasse scambiandomi per un’altra persona o che sorridesse a qualcuno dietro di me, tanto che perfino mi voltai. Non vedendo nessuno, capii che sorrideva proprio a me. Arrivatomi difronte allungò la mano e con una stretta calorosa si presentò: Alfredo Zirondoli.
In quelle ore d’attesa mi ero preparato un discorsetto infarcito di tante bugie, ma di fronte ad un’accoglienza del genere raccontai solo la verità: ero iscritto a un’altra scuola, avevo bisogno di lavorare presto ed ero venuto per sapere se era disposto a insegnarmi in fretta. Non ebbe un attimo di esitazione, mi accettava senz’altro. Alla domanda su quando potevo cominciare rispose:
«Immediatamente». Chiese un camice per me alla suora. Poiché non lo trovava andò lui stesso a cercarlo e me lo portò. In sala operatoria mi fece iniziare subito un’anestesia. Alla mia obiezione di non averla mai eseguita mi rassicurò: sarebbe stato vicino a me per tutto l’intervento. Fu pronto a rispondere a qualunque quesito e l’anestesia si mantenne ottima sino alla fine.
Quel giorno ritornai a casa davvero felice. Mia moglie, che sino allora mi aveva visto preoccupato e irritabile, capì dall’espressione del mio volto che era successo qualcosa d’importante e mi disse che erano anni che non mi vedeva così contento. Le dissi che avevo trovato una persona eccezionale, un collega che mi aveva trattato in modo diverso da tutti gli altri. Il giorno dopo, un altro collega chirurgo mi salutò per primo e, chiamandomi per nome, mi diede il benvenuto. Continuai a frequentare la clinica regolarmente, imparando e lavorando. Ogni giorno ero oggetto d’attenzione da parte dei due medici. Erano piccoli gesti; che però mi lasciavano sbalordito. Una volta ad esempio, il docente anestesista (Maras)aveva appena iniziato a mangiare i primi bocconi; dopo una seduta operatoria molto faticosa, terminata oltre le tre del pomeriggio. Quando mi vide a mensa, mi chiese come mai non ero ancora partito. Saputo che con l’autobus di linea non avrei fatto più in tempo a prendere il solito treno, smise di mangiare, mi spinse giù per le scale, prese la sua macchina e mi accompagnò alla stazione in tempo utile per salire sul direttissimo Pisa – La Spezia.
Com’era ·logico, cominciai a chiedermi il motivo di queste attenzioni particolari. C’era certamente qualcosa sotto. Pensai alle cose più strane: società segrete, massoneria o qualcos’altro di simile. Non mi venne però mai in mente che potessero essere cristiani: se l’avessi scoperto, non avrei accettato più nulla da loro poiché, per le mie idee politiche, ero pieno di pregiudizi. La loro vita fatta d’amore verso di me, verso i malati e i loro parenti, verso i colleghi, mi riempiva comunque d’ammirazione.

Enrico-Cavallini-con-Marco-Bernardini

Enrico Cavallini con Marco Bernardini, autore del libro

Alfredo ricorda molto bene quel tempo e i momenti di commozione si susseguono. Ci racconta che in sala operatoria Enrico rivelava facilità d’apprendimento e prontezza ma era insicuro e incerto: «Non preoccuparti, io sono vicino a te». Il giorno dopo nuovamente lì. C’era poi il momento del pasto: «lo l’avevo dall’Istituto, ma lui no, allora dividevamo il mio senza che la suora se n’accorgesse». Enrico rimase attratto e colpito da questo atteggiamento disinteressato di grande generosità verso di lui, anche se apparentemente inspiegabile. Non chiese né volle sapere. Già quello che accadeva gli riempiva la testa di ebbrezza non riuscendo tuttavia a forgiare, pure annotandolo interiormente, alcunché di compiuto. Ma il suo cuore “viveva” e questo si manifestava sempre più frequentemente nell’atteggiamento, oltre che di ammirazione, anche di apertura e di confidenza che aveva con Alfredo. «Ciò avveniva durante le pause, quando salendo per andare sopra, nel mio studio, Enrico mi seguiva. Ormai ci davano del “tu ”, eravamo diventati amici e lui si confidava. Mi raccontava la sua vita e la sua fede comunista, irrobustita durante il periodo della guerra. Rivelava in modo evidente di non appartenere all’area cattolica, anzi dal punto di vista religioso non sapeva in sostanza niente. Era grezzo. Molto incolto al punto che quando casualmente, nei momenti di riposo, si andava insieme a vedere S. Maria Novella, sentendo parlare casualmente, durante una normale omelia il celebrante, lui pensava che fosse uno del gruppo».
Ad Alfredo tutto questo non interessava un bel niente. Lui portava impresso nel cuore una sola norma: nella vita ciò che vale è amare. Enrico si accorse che altri medici della clinica agivano come il giovane professore. Si aiutavano, si volevano bene, si sentivano fratelli, si sostenevano a vicenda dandosi reciprocamente consigli e incoraggiamenti. C’era un rapporto di confidenza e di comunicativa tra loro tale da rappresentare un vero sostegno nella vita di ogni giorno. Enrico era ammirato di quanto accadeva e sentì lo stimolo di fare altrettanto. Desiderò lui pure sentirsi a pieno titolo uno di loro, essere come loro, anche se i contorni delle loro motivazioni erano ancora molto sfumati e confusi. Tuttavia il nuovo stile di vita che ormai lo aveva toccato e che in parte era diventato suo, cominciò a creare le prime difficoltà in casa. La moglie notò questo costante buon umore e il desiderio crescente di recarsi a Pisa non appena possibile. Il modo nuovo di muoversi: molto ordinato, affettuoso, pronto nel servizio la portò a chiedersi “Ma questo, chi ha incontrato?”. Era difficile spiegare. Una volta all’alba, viaggiando durante la notte, Enrico arrivò trafelato all’istituto per incontrare Alfredo. Era angosciato, affranto, amareggiato. Aveva trasceso con la moglie ed era fuggito. Trascorsero ore insieme e la voce del maestro placò l’anima dell’allievo. Venne il rammarico, ritornò la pace e rispuntò la luce. Ormai, pur con tutta la discrezione possibile, ce n’era abbastanza da giustificare in Enrico un legittimo e incontenibile desiderio: voleva capire come stavano le cose, voleva sapere “cosa ci fosse sotto”. Insomma perché tutti loro, col Professore in testa, si comportavano in quel modo tra loro e soprattutto con lui?
Continuiamo con il suo racconto.

L’episodio che mi spinse a chiedere spiegazioni avvenne dopo alcuni mesi quando l’amico chirurgo prof. Rovati dovendo recarsi a Milano mi offrì un passaggio in auto fino a La Spezia. Cercai di rifiutare perché avrebbe dovuto fare una deviazione piuttosto lunga, ma non ci fu verso. Raggiunta Marina di Massa il motore cominciò a perdere colpi. Ci fermammo da un meccanico che ci spiegò che c’era un pistone rotto ed era impossibile proseguire. Il chirurgo entrò in un bar. Pensavo s’interessasse del modo per raggiungere Milano al più presto possibile. Invece fece alcune telefonate solamente e informarsi di come avrei potuto raggiungere la mia città.
Posponeva le sue preoccupazioni alle mie. A questo punto chiesi la ragione di tante attenzioni per me. Mi rispose che aveva imparato dal professor Zirondoli il valore sommo della carità al prossimo: «In questo momento sei tu, prima era il meccanico, questa sera se arriverò a Milano, sarà quel professore che mi attende». Il suo discorso mi procurò uno shock, non tanto per le parole, quanto perché cominciai a capire che il primo incontro con il docente di anestesia non era stato determinato da una simpatia particolare verso di me, ma dal suo modo di vivere. Arrivato a casa gli scrissi in una lettera che anch’io volevo vivere così. Avevo compreso che fosse un modo nuovo di attuare quella rivoluzione della società che tanto mi stava a cuore.

Enrico si accorse che ogni possibile congettura, ogni ragionamento deduttivo lo conducevano sempre allo stesso punto di partenza, ad un’unica persona: il giovane professore. Non poteva certo immaginare quanto fosse accaduto ad Alfredo qualche anno prima: la conoscenza di Ginetta e l’incontro con Chiara Lubich. Con quel cuore incontrò Enrico. Mai parlò a lui della sua scelta e questo per rispetto e per lasciarlo libero, profondamente convinto che non la parola ma la vita vissuta avrebbe parlato per lui. Dopo aver ricevuto lo scritto a cui Enrico fa cenno nel suo racconto, Alfredo finalmente cominciò a raccontare. Man mano che le conversazioni tra loro si snodavano, procedevano e si ampliavano, Enrico gioiva e sudava, si entusiasmava e ribolliva perché avvertiva chiaramente la disintegrazione di tutto quanto aveva in testa, delle sue credenze, delle sue passioni. Si profilava per lui un’esperienza nuova che lo affascinava e che parimenti, come avvenne in Alfredo anni prima, ripuliva con decisione ogni cosa nel cuore e nella mente spazzando via vecchie incrostazioni fatte di sospetti, congetture, dubbi. Grande fu il gioioso stupore di Enrico e la meraviglia che ne seguì sulla possibilità concreta di essere uno di loro, di vivere come loro: Alfredo e i suoi amici. Si aprì per lui una prospettiva di vita dai confini illimitati…

Le meraviglie non finirono qui. Seppi che altre decine di giovani vivevano quest’ Ideale in tutta Italia, e che si sarebbero riuniti; per le ferie estive, in montagna. Compresi che erano cristiani e per di più cattolici: i miei più acerrimi nemici; come avevo appreso dal clima politico italiano di quegli anni. Chiesi di poter partecipare anch’io a quell’incontro estivo. Volevo verificare la loro vita comunitaria poiché mi sembrava impossibile anche solo pensareche dei cattolici vivessero sul serio i principi evangelici. Era l’estate del 1954. Partimmo con la più piccola macchina allora in circolazione: una Fiat Topolino. Era per due persone, ma ci stipammo dentro in tre con i relativi bagagli. Arrivare fino in Trentino, in Val di Fassa, fu lungo e difficoltoso. Eppure, nonostante i disagi, fu il viaggio più bello della mia vita. Non ci fu un attimo di chiusura reciproca, né di discussione, ma solo un rapporto di rispetto. Finalmente arrivammo a tarda sera a Pozza di Fassa. Un gruppo di persone ci venne incontro con saluti calorosi; strette di mano, abbracci. Subito qualcuno mi cedette il suo letto (seppi poi che era andato a dormire in un fienile). Il giorno dopo ancora accoglienza calorosa da parte di molti: facevano a gara per farmi sentire a mio agio. Malgrado fossi stordito da tanti visi nuovi sorridenti e gioiosi non volevo perdere di vista lo scopo per il quale ero lì. Li osservavo nel rapporto tra loro, quasi pronto a coglierli in fallo, ma scoprii subito che il modo generoso di comportarsi con me era la regola di quella strana convivenza. Volli sapere da dove scaturiva tanta forza per amare il prossimo: mi fu risposto che non era filantropi a, ma Vangelo.
Mi venne una voglia matta di provarci anch’io e una luce splendente riempì la mia anima. È difficile spiegare come accadde, non fa parte delle realtà comunicabili a parole: so solo che dentro di me quella luce illuminava tutte le cose. Non ero più ateo, ma forse per averlo sperimentato fra quegli uomini, credevo all’immenso amore di Dio. Dopo pochi giorni lasciai la Mariapoli con un pullman che mi portò alla stazione di Trento. Fu un dolore profondo: avevo una gran paura che il mio mondo mi avrebbe fatto ritornare quello di prima, ma in famiglia, sul lavoro, con i vecchi amici, m’imposi di vivere la vita sperimentata lassù. E il mondo attorno a me cambiò. Il rapporto medico-paziente subì un radicale mutamento: non m’importava più il caso clinico, la guarigione perseguita allo scopo di sentirmi dire che ero stato un bravo medico, ma curare il mio prossimo malato vedendo Gesù in ognuno di loro.

(Continua)

*Introduzione
Ci sembra però utile, fare una breve introduzione: Enrico Cavallini, medico e pioniere dell’anestesia in Italia, (vedi anche “La Spezia onora Enrico Cavallini” su questo blog è stato un grande specialista nella disciplina, ma il suo primo maestro non è stato altro che Maras Alfredo Zirondoli. Infatti è stato Maras nel suo periodo a Pisa come professore della cattedra di anestesia in quella università, che l’ha avuto come allievo e quindi ha avuto modo di conoscere Cavallini, di introdurlo nella specialità e facendogli conoscere nello stesso tempo, la spiritualità di Chiara Lubich, al punto che Cavallini diventerà in seguito un focolarino sposato. L’autore del libro, Marco Bernardini, anche lui focolarino sposato, ha conosciuto bene entrambi, e per raccontare la biografia di Cavallini è andato ad intervistare personalmente Maras, in quei tempi già ammalato. Si capisce quindi la qualità di questa testimonianza su Cavallini e che allo stesso tempo evidenzia la ricca personalità di Maras.

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About Luca Tamburelli

Sposato e padre di fue figli, vivo in Francia, a Annonay, presso Lione. Sono amico di Maras e di moltissimi suoi amici.