Maggio 1987
Ho conosciuto l’Ideale nel dicembre 1949.
Ero da poco laureato in medicina e stavo specializzandomi in anestesia a Milano, lontano dalla famiglia. Prendevo i pasti presso un pensionato cattolico dove conobbi Oreste, Cari e Piero coi quali spesso ci fermavamo a parlare dopo cena.
Una sera uno di loro mi presentò una signorina che, tendendomi la mano, mi disse: “sono Ginetta”. Io risposi: “piacere” e lei di ritorno “sono molto contenta di conoscerla”.
Rimasi colpito dal suo accento di sincerità; mentre infatti io avevo detto “piacere” usando un modo di dire convenzionale – che non corrispondeva al mio vero sentimento – lei era evidentemente contenta di conoscermi.
La cosa mi interessò e cominciai ad ascoltare. Durante la cena, invece di mangiare, Ginetta raccontava tanti fatti accaduti in quel giorno, fatti, alcuni molto comuni ma tutti vissuti intensamente. E questo dava un’incisività al suo racconto che prendeva tutti noi che ascoltavamo.
A un certo punto disse di aver attraversato un crocicchio quando il semaforo era rosso e che il vigile le aveva comminato una contravvenzione. La riflessione che fece mi colpì: “anche in un crocicchio c’è qualcuno che esprime la volontà di Dio e la fa rispettare”. Io non l’avevo mai pensato, anzi, quando mi era capitato di passare col semaforo rosso, avevo sempre addotto delle scuse (non l’ho visto, devo correre perché sono medico, ho fretta ecc… ).
Poi Ginetta continuò dicendo di aver visto un ragazzo che scriveva sul muro a grandi caratteri: “abbasso Stalin!” Gli aveva chiesto chi fosse Stalin e il ragazzo le aveva risposto: il capo dei comunisti. “Ma è tuo fratello” aveva replicato lei. Rimasi stupito sia per il fatto di non sapere chi era Stalin, sia per la risposta. E cominciai a chiedermi da dove Ginetta venisse, anzi chi ella fosse.
C’era infatti in lei qualcosa di fresco che la faceva apparire molto giovane, e nello stesso tempo c’era una profondità che deponeva per un’età più matura.
Neppure era facile capire a che condizione sociale appartenesse (laureata, studentessa, impiegata?). Quello che appariva molto evidente – per me cattolico praticante, vice presidente della FUCI – era che Ginetta era una cristiana che credeva al Vangelo e lo metteva in pratica.
Una frase di Gesù da lei più volte ripetuta me lo confermava: “qualunque cosa avete fatta al più piccolo l’avete fatta a me”. E il modo con cui sottolineava “qualunque cosa” e “a me” era tale che lasciava trasparire una profonda convinzione, al punto che io, facendo un rapido esame di coscienza, mi resi conto che, se quelle parole erano “proprio così”, dovevo convertirmi completamente e cambiare vita.
Per cui la notte che seguì cercai nel vangelo quella frase e trovatala (era proprio così) non riuscii ad addormentarmi. Era nel contesto dell’incontro con Gesù alla fine della vita e io meditai a lungo – dato che mi ero sempre preparato scrupolosamente agli esami sostenuti fino allora – quanto sia importante prepararsi bene all’esame dal quale dipende l’eternità, tanto più che Gesù me ne aveva già rivelato le domande.
Al mattino seguente, alzandomi, cercai di non far rumore per non svegliare l’anziana signorina presso la quale ero a pensione. Poi, sul tram, consegnai non distrattamente – come invece facevo prima – il tesserino al controllore e, quando me lo ridiede forato gli dissi grazie. Era la prima volta che mi capitava. Più tardi entrai in ospedale e salutai per primo il portiere, persona che non stimavo molto per l’abitudine che aveva sempre di parlare male di tutti. Era il minimo… Rispose al mio saluto con un sorriso che non gli avevo mai visto, mi chiese se avevo dormito bene la notte e, alla mia risposta affermativa, tirò fuori questa frase: “io prego sempre Dio, insieme a mia moglie, prima di andare a letto, che ci dia una buona notte a noi e ai nostri figli”. Non mi sarei mai aspettato che quell’uomo credesse in Dio e lo pregasse !
Cominciai quindi a capire che le persone erano diverse, se io mettevo in pratica il Vangelo e che non potevo pensare di conoscere nessuno se prima non l’avevo, in qualche modo, amato.
La giornata, iniziata così, fu molto piena. Avevo anch’io cominciato a “vivere” ogni momento e ogni situazione cercando di non lasciarmi sfuggire nulla, proprio come avevo visto fare Ginetta. Alla sera ero molto stanco (anche per la notte precedente passata in bianco), ma ero felice perché avevo sperimentato che il Vangelo si può vivere e trasforma veramente la vita.
Trovai Ginetta al ristorante; non appariva stanca. Certamente era più allenata di me in questo modo di vivere. Gliene chiesi la conferma e lei mi parlò dell’attimo presente. Riducendo e concentrando il tutto nel presente si evita la preoccupazione per un futuro che non è ancora venuto e non ci si angustia per un passato che non dipende più da noi. Mi parve una risposta esauriente. Mi parve anche di capire che solo vivendo l’attimo presente avrei potuto trovare un rapporto con Dio che è l’Eterno Presente.
Era l’A.B.C. di una nuova vita, ma già la mia esistenza ne era penetrata. Lo compresi meglio più tardi quando mi accorsi di aver dimenticato parenti, amici, abitudini, divertimento. Solo scrissi a mia madre dell’incontro con Ginetta e le diedi l’indirizzo del focolare.
Del resto, come potevo pensare a proteggermi dal freddo – come facevo prima – uscendo dal caldo della sala operatoria, per attraversare un cortile pieno di neve, se un prossimo attendeva nell’altro padiglione un intervento urgente per non morire soffocato? O come potevo rifiutare un cibo offerto da un povero paziente – l’unica cosa che aveva – per il solo motivo che non mi piaceva? E che senso aveva prendere atteggiamenti professionali per apparire più anziano (ero molto giovane e temevo che i miei pazienti non mi prendessero sul serio) quando ciò che vale è ciò che si è davanti a Dio?
Ma il momento più forte che decise di tutta la mia vita fu quando una sera Ginetta mi parlò dell’abbandono di Gesù. Al di là del racconto che ne fece e della solennità e convinzione con cui ne parlò, ciò che accadde in me fu travolgente.
Io avevo studiato medicina per una scelta fatta già all’età di nove anni. Volevo togliere il dolore che c’era nel mondo. Per questo avevo rinunciato alla musica che era il mio ideale; per questo avevo studiato intensamente arrivando alla laurea con pieni voti e lode a soli ventitré anni, nonostante la guerra. Una volta medico però mi ero accorto che il dolore non si riesce a toglierlo. Poco si può fare per il dolore fisico, ma assolutamente nulla la medicina può fare per la maggior parte dei dolori morali e spirituali che affliggono l’umanità. In me erano quindi sempre più forti tante domande alle quali, nonostante avessi impegnato nello studio la parte migliore della giovinezza, non trovavo risposta. Perché la morte, perché l’ingiustizia, perché la guerra, perché la violenza?
In questa situazione il “perché” di Gesù abbandonato risuonò in me come se riassumesse e trascendesse tutti i perché del mondo al punto da intuire perché fosse stato un grido… e la risposta non era venuta! la risposta… Se l’era data lui stesso – Gesù – compiendo un atto di amore più grande: “nelle Tue mani, affido il mio spirito!”.
Fu questa una luce fortissima che mi folgorò e – ripeto – mi travolse: la risposta a ogni mio perché avrei dovuto darla io! Amando di più, come ha fatto Gesù. E questo sempre e in tutte le situazioni. Valeva per me e valeva per tutti: amare per primi senza aspettarsi nulla.
“Questa sera sei nato” mi disse Ginetta vedendomi trasformato. E così mi sentivo anch’io e lo dicevo a quelli che erano con me: “abbiamo la soluzione a tutti i problemi; Gesù ce l’ha data col suo abbandono!” Ma quelli non capivano. Evidentemente era stata una grazia per me, era la mia chiamata.
Più tardi conobbi Chiara. Ebbi l’impressione di vedere una persona alla quale Dio aveva dato quella luce – ora direi un carisma – che era arrivata fino a me penetrandomi con la forza di una chiamata. E capii che la mia vocazione doveva esprimermela lei. E così avvenne.
Conobbi anche don Foresi, allora non ancora sacerdote e mi parve una persona speciale. Più tardi seppi del suo ruolo accanto a Chiara nel costruire l’Opera e capii anche, in lui, il sacerdozio al quale io stesso – proprio il giorno della sua ordinazione – mi sentii chiamato.
Intanto, a livello personale, stavo sperimentando il centuplo. Ho fatto carriera (a 28 anni ero docente), ho ottenuto buoni successi in campo professionale, mi sono fatto un nome partecipando a congressi internazionali e facendo pubblicazioni scientifiche.
Ho avuto anche incomprensioni, difficoltà, persecuzioni (dai colleghi invidiosi, dal direttore che esigeva da me interventi immorali, da persone certamente in buona fede ma che non approvavano il cambiamento avvenuto in me).
Più tardi sono entrato in focolare e ho goduto dell’unità che nasce dal consumarsi in uno con coloro che hanno la mia stessa vocazione. E ho sperimentato che Gesù in mezzo e Gesù abbandonato sono due facce di una stessa medaglia da cui tutta la vita dell’Opera nasce e si mantiene.
Ho partecipato in tutti questi anni alle varie fasi di sviluppo dell’Opera ad alcune delle quali in maniera più diretta (sacerdozio, diffusione del Movimento in Francia, primi contatti ecumenici con gli anglicani e gli ortodossi, Loppiano, Montet); innumerevoli momenti di Dio nei quali ho visto in azione il carisma che Dio ha dato a Chiara.
Ho ricevuto anche un nome nuovo – dato che molti me lo chiedono – che rappresenta per me un continuo stimolo a conformare la mia vita a Maria, vivendo le varie tappe della Sua via, avendoLa come modello nel far la volontà di Dio, nel dar vita a Gesù, nel vivere tutte le virtù, nel saper perdere, nella sua maternità universale. Nell’Assunta mi piace contemplare le “grandi cose che ha fatto in lei l’Onnipotente”, il disegno di salvezza pienamente realizzato, il capolavoro unico del quale “mai abbastanza si dirà”.
Tante cose quindi, tante grazie ricevute. Ma l’unica cosa che, nonostante i fallimenti, ho cercato di fare è stata quella di essere fedele a G.A. e a Chiara, a quella chiamata che avevo sentito nel lontano 1949 e che Chiara mi aveva confermato chiamandomi al focolare.