Continua dalla parte seconda
Eolo Giovannelli
Il risultato fu che in breve tempo tutti a Pisa – e anche fuori – seppero di noi e molti, volendo accertarsi personalmente, conobbero il Movimento.
Avvenne così di un sacerdote salesiano che ci invitò a parlare ai ragazzi dell’Oratorio – e quella sera “nacquero” Umberto Giannettoni e Vittorio Della Torre. Avvenne così del parroco di San Frediano a Settimo che ci presentò a una sessantina di persone riunite nel teatrino della sala parrocchiale – e alcuni divennero sostenitori entusiasti del Movimento. Ci conobbero anche a Livorno, all’Accademia Navale, e a Lucca, dove un giorno fui accompagnato presso un giovane paralizzato, Eolo Giovannelli, che fu subito profondamente colpito dalla nostra vita.
Qualche mese più tardi, Eolo, per una grave intossicazione, fu ricoverato nella clinica dove lavoravo. Era in coma e i medici del reparto dissero che non c’era nessuna probabilità di salvarlo. Avvertii tutti quelli che ci conoscevano, a Pisa, a San Frediano, a Livorno perché pregassero e facessero pregare, e io stesso mi recai nella chiesa dei Galletti dove l’Eucarestia è continuamente esposta. “Non mi sembra giusto – dicevo – che muoia così presto… l’incontro con il Movimento è appena avvenuto… non ha ancora avuto modo di testimoniarlo e di portare frutti… però, Signore, sia fatta la Tua volontà”.
Rientrato in ospedale, Eolo aveva ripreso coscienza e i medici erano ora ottimisti perché “aveva reagito bene alle cure”.
Da quel giorno Eolo divenne un punto di incontro per moltissimi giovani che, a volte, invadevano letteralmente la clinica, stipandosi in portineria quando non si poteva entrare in sala, o rifugiandosi nella mia stanza, in attesa che io li accompagnassi da lui. Naturalmente, il responsabile di tanto via vai fui ritenuto io, soprattutto perché all’ora dei pasti ero spesso in ritardo o, peggio ancora, condividevo il mio cibo con qualche ragazzo venuto da lontano per conoscere Eolo.
Questo creò qualche difficoltà col personale della clinica, ma fu anche l’occasione per constatare che nel nostro modo di vivere c’era qualcosa di nuovo che stava cambiando l’intero ospedale.
Se ne accorse anche un medico di La Spezia, Enrico Cavallini, venuto a Pisa per chiedermi di frequentare, come osservatore, la scuola di anestesia che intanto io avevo iniziato. Appartenendo egli a un’altra scuola e rappresentando quindi un futuro concorrente, si attendeva di non essere bene accolto. Ma l’atmosfera che trovò in clinica lo prese a tal punto che, nel giro di pochi mesi, cambiò il suo comportamento esterno, le sue convinzioni ideologiche e religiose.
“Ora credo in Dio – disse un giorno – non perché me ne avete parlato, ma perché stando con voi io sono totalmente cambiato e riconosco vere tante cose della religione che conoscevo fin da ragazzo ma che non avevo mai visto praticate”.
La prima ad accorgersi di questo cambiamento fu naturalmente la moglie che ne parlò ad altri, e così il Movimento fu conosciuto anche a La Spezia.
Umberto e Vittorio, cui si erano aggiunti altri dell’Oratorio dei Salesiani, manifestarono ben presto il desiderio di poter partecipare ogni giorno alla Messa, ma la cosa fu ostacolata dai genitori che non capivano il cambiamento dei loro figli. Ci fu perfino chi parlò di “mania religiosa” e si strinsero i freni. Risultato: i ragazzi scappavano di casa, mettevano avanti gli orologi per uscire prima, rinunciavano alla colazione per poter ricevere l’Eucarestia. La Domenica poi tutti partivano, in treno, in autostop o con mezzi diversi, per Firenze, per passare almeno qualche ora in focolare.
Mi distesi… sul tavolo
Il focolare maschile, dopo una sistemazione provvisoria in casa della mamma di Vita – che in quel tempo si trovava a Roma – si era stabilito in due stanzette prese in affitto, in Via Del Prato, e due focolarini vi erano venuti a vivere.
Il locale era più che modesto: un unico vano diviso in due stanzette, con un unica finestra. C’era un lavandino, che serviva per tutti gli usi, e due lettini che durante il giorno erano utilizzati per sedervisi. C’era poi una specie di poltrona che serviva per dormire quando si superava il numero di due.
La prima volta che trascorsi la notte in focolare vi dormii sopra io. E quando, il fine settimana successivo, portai in focolare un giovane di Pisa interessato a conoscere il Movimento, la poltrona servì per lui e io mi distesi… sul tavolo.
Guardando ora, a distanza di anni, questi “primi tempi”, tante cose possono sembrare strane, e certamente anche allora apparivano tali a chi guardava dal di fuori. Ma, vissuta dal di dentro, questa esperienza era semplicemente “nuova”, della novità del Vangelo, era la risposta a una chiamata a vivere insieme – anzi, in unità – il messaggio di Gesù secondo il modello che ci offriva Chiara e le sue prime compagne.
Intanto a Pisa la scuola di anestesia si faceva un nome e da Milano venne un giovane medico, Giuseppe Tradigo, che chiese di poter frequentare il corso che io tenevo. Bastarono pochi giorni perché Pino (così fu chiamato subito, famigliarmente) non solo fosse sempre presente alle mie lezioni e al mio fianco in sala operatoria, ma non mi lasciasse mai solo. E siccome ogni mattina mi recavo alla Messa, venne anche lui, e agli incontri del Movimento, a Pisa, a Livorno, a Firenze, partecipò sempre. Ben presto sentì che il focolare lo attirava e – comunicata la cosa ai genitori e disdetti gli impegni professionali che avrebbero potuto condizionare la sua completa disponibilità – vi portò le poche cose di sua proprietà e entrò a far parte della comunità.
Un incontro col Vescovo
Tutti questi fatti, di cui l’intera Pisa era a conoscenza, furono l’occasione di un incontro col Vescovo, dal quale mi recai con un focolarino di Firenze.
All’inizio, Mons. Camozzo era molto serio: troppe cose aveva sentito dire – e non tutte esatte – sul conto dei focolarini. Ma, a mano a mano che io gli raccontavo come cercassimo di vivere il Vangelo, si rasserenò, fece molte domande e approvò tutte le mie risposte. Soprattutto fu colpito quando apprese che di focolarini, a Pisa, c’ero solo io. Ciò che era avvenuto nella sua diocesi non era certo proporzionato alla presenza di una sola persona che, oltre tutto, passava la sua giornata quasi interamente in sala operatoria!
Gli chiesi se pensava di darci un sacerdote come assistente, ma rispose che non ce n’era bisogno. “Continui con le sue ispirazioni – mi disse – io sono contento così”.
La clinica chirurgica era diventata il punto di riferimento di quanti, a Pisa, volevano vivere lo spirito del focolare. Io, più che potevo, cercavo di incontrarmi con loro fuori dal recinto dell’ospedale, ma non sempre era possibile.
Un signore che voleva uccidermi
Un giorno venne a trovarmi una ragazza di una città vicina che aveva sentito parlare del Movimento e voleva sapere tante cose. La ricevetti in portineria e per circa mezz’ora risposi alle sue domande. Se ne andò molto contenta, anzi, entusiasta.
Due settimane più tardi il portiere mi fece sapere che, durante una mia assenza, si era presentato un signore chiedendo di me, con un fare agitato e aggressivo. Veniva dalla stessa città della ragazza, ma io non associai le cose.
Lo stesso giorno, mentre mi trovavo in sala operatoria, il portiere mi avvertì che quel signore era tornato e mi attendeva. Risposi che sarei stato libero solo dopo due ore e continuai il lavoro. Viceversa l’intervento terminò prima del previsto, e siccome Enrico, che abitava a La Spezia, mi chiese se potevo accompagnarlo subito al treno, io salii subito in macchina, passando dal sottosuolo cui si accedeva direttamente dalla sala operatoria, e partii di corsa alla volta della stazione ferroviaria. Quando rientrai, il portiere mi disse che quel signore, vedendomi partire, si era messo a gridare: “E’ scappato, e’ scappato” e aveva cercato di rincorrermi. La cosa mi apparve strana, ma non seppi che cosa pensare.
Il giorno seguente sabato e, dopo il lavoro, andai a Firenze in focolare. Ero appena uscito dall’ospedale che il solito signore si presentò in portineria e, saputo che ero appena partito, esclamò: “Ma mi scappa sempre!” Chiese dove potevo essere andato e il portiere gli diede l’indirizzo del focolare. Senonchè quella sera io avevo una lettera da consegnare al focolare femminile, e mi ci recai subito, appena arrivato a Firenze.
Il signore arrivò al focolare maschile, cercò di me, seppe che non ero ancora giunto e mi attese. Più tardi io telefonai per giustificare il mio ritardo e mi dissero che qualcuno mi aspettava. Chiesi chi era, ma il misterioso signore non volle dirlo; chiese invece lui ai focolarini l’indirizzo del focolare femminile e, saputolo, uscì di corsa senza salutare.
Quando rientrai e mi raccontarono la scena, io riconobbi, dalla descrizione del signore e del suo comportamento agitato, la stessa persona che mi aveva già alcune volte cercato a Pisa. Non lo associai però ancora alla ragazza che una ventina di giorni prima era venuta a chiedermi notizie sul Movimento.
Il collegamento lo feci poco dopo, quando dal focolare femminile mi telefonarono dicendo che il signore in questione era arrivato là cercando, agitatissimo, di me. Saputo che ero appena partito, aveva dato sfogo a una collera disordinata, lasciandosi scappare alcune frasi nelle quali si parlava di “malocchio” del quale sua figlia era stata vittima incontrando un medico di Pisa, malocchio da cui egli voleva liberarla uccidendo il suddetto medico. Per attuare questo progetto, si era licenziato dal lavoro riscuotendo la liquidazione, che aveva consegnata alla moglie prevedendo che sarebbe finito in prigione, somma dalla quale aveva trattenuto solo il necessario per acquistare una rivoltella… Ma il medico sempre gli sfuggiva.
Le focolarine cercarono di calmarlo, si fecero dire in cosa consistesse questo malocchio e seppero che la ragazza aveva improvvisamente cambiato modo di fare: prima si vestiva con eleganza, partecipava a feste da ballo, le piaceva essere corteggiata, mentre ora si vestiva modestamente, non usciva più alla sera, parlava di lasciare la famiglia e di non volersi sposare.
Le focolarine dissero che certamente si trattava di un malinteso e, non so come, riuscirono a convincerlo che tutto poteva risolversi in modo diverso da quello che lui pensava.
“A questo punto – mi spiegò una focolarina al telefono – il padre chiese come garanzia che tu non incontrassi più sua figlia. E io – continuò – gliel’ho assicurato, supponendo che tu fossi d’accordo”. Io certo ero d’accordo, ma dato che era stata la ragazza a incontrarmi di sua iniziativa, non ero affatto sicuro che non l’avrebbe fatto ancora. Per cui vissi alcuni giorni non tranquillo… e ogni volta che il portiere mi diceva al citofono che qualcuno mi aspettava all’ingresso, mi preparavo al peggio.
Invece la cosa non ebbe seguito. Qualche mese più tardi seppi che la ragazza si era fidanzata, con grande soddisfazione dei genitori e che il padre aveva ripreso il lavoro restituendo la liquidazione. Per me però fu un’esperienza profonda, che comunicata e sofferta insieme a tutta la comunità, ci strinse ancora di più fra noi e contemporaneamente fece conoscere ad altri il Movimento.
La docenza
Parecchi colleghi più anziani di me si domandavano come mai il direttore avesse preferito me, più giovane, proponendomi per un titolo – la docenza – cui sarebbe corrisposta una posizione anche economica di privilegio.
Oltre a essere più giovane, mi accusavano di fare “quello che volevo” a differenza di loro che eseguivano alla lettera – dicevano – tutto ciò che il “capo” disponeva.
Certo, il mio atteggiamento nei riguardi del direttore non poteva evidentemente essere qualificato come “servile”, ma l’innegabile novità che il nostro modo vivere aveva portato – dico “nostro” perché eravamo ormai in sei a vivere nella clinica l’ideale dei focolarini – non poteva in alcun modo definirsi come “fare ciò che si vuole”. Era piuttosto un non conformarsi a ciò che di vecchio, di routinario, di egoistico poteva esserci nell’ambiente per cercare invece di cogliere lo spirito con cui venivano espresse le varie esigenze dai responsabili della clinica e dagli ammalati. Era un pagare di persona quando altri avessero sbagliato, era andare contro corrente quando questa portasse a omissioni o ingiustizie.
Faccio un esempio: per un incidente operatorio dovuto a imperizia di un chirurgo, una giovane sposa si trovava in uno stato di choc dal quale, non essendoci sangue da trasfondere sembrava impossibile recuperarla. Il marito della donna, un tipo violento e passionale, aveva precedentemente avvertito il chirurgo che se l’intervento – secondo lui non necessario e che invece il chirurgo ci teneva a fare – non fosse riuscito, lo avrebbe “fatto fuori” con una coltellata.
Il mattino dell’incidente il chirurgo, ricordandosi della minaccia, scappò dalla sala operatoria e il marito, accortosene, arrivò furioso fino alla soglia della sala deciso – diceva – a far fuori qualsiasi altro medico vi avesse trovato. Allora scapparono tutti: l’aiuto chirurgo, gli assistenti, perfino gli infermieri e le crocerossine. Rimasi solo io che cercavo, coi pochi mezzi che avevo a disposizione, di rianimare la donna; mentre la suora, fra una telefonata e un’altra per chiedere sangue con urgenza, veniva a dirmi sottovoce che il marito mi aspettava fuori dalla porta, e andava da lui cercando di convincerlo che la moglie era ancora viva…
Mentre scrivo, mi sembra impossibile che certe cose potessero avvenire appena trent’anni orsono, eppure sono tutte stampate in me, non solo per la loro drammaticità ma per il riferimento alla nuova vita che avevo iniziato, nella quale Dio si manifestava sempre come Amore.
Comunque, dopo otto ore di rianimazione, senza che nessuno mi prestasse aiuto – l’unica presenza era quella della suora che ogni tanto mi proponeva un caffè – la donna si riprese e il marito desistette – e me lo disse – dal suo pazzo proposito. Particolare interessante: il chirurgo e gli altri medici che, dopo la fuga del mattino erano poi rientrati in clinica pensando che dopo tante ore fosse tutto finito, venendo invece a sapere che la donna era ancora in sala operatoria, mi mandavano dei messaggi per invitarmi a lasciar perdere, a non insistere, a sgombrare la sala. Uno mi chiese addirittura se avevo scambiato la sala operatoria per una camera mortuaria…
Quando poi si sparse la voce che la donna era viva piovvero i sorrisi e le congratulazioni di tutti e venne anche una manata sulle spalle da parte del direttore, accompagnata da un “lo sapevo che di te ci si puo’ fidare”.
Faccio un altro esempio: una sera tardi ricoverarono d’urgenza un ammalato grave sulla cui diagnosi il chirurgo e il radiologo non si mettevano d’accordo. Io mi trovai a passare per caso mentre i due – altercando – si attribuivano reciprocamente la causa della mancata diagnosi. Mi fermai, chiesi di vedere l’ammalato anche se non era di mia competenza e mi risposero: “fai pure, tanto fra dieci minuti è morto”.
Effettivamente la situazione appariva disperata: cianosi, dispnea, addome teso, polso a 180. Feci alcune domande, ma il paziente parve non sentire. Siccome però muoveva le labbra, io avvicinai l’orecchio per ascoltare e udii che bestemmiava. “Tanto fra dieci minuti è morto” ricordai. Corsi al telefono, chiamai il direttore, gli dissi che c’era un caso urgente da operare e che venisse subito. Arrivò un po’ assonnato e un po’ di malavoglia. “Di che si tratta?” domandò “Di addome acuto” “la causa?” “La vedrà lei stesso”.
Questa frase che per me significava “la diagnosi deve farla lei”, per il chirurgo risultò invece come se avessi detto: “E’ così evidente che non devo dirgliela io” e questo gli diede sicurezza e non ci fece perder tempo nella ricerca della causa che – ne ero sicuro – si sarebbe scoperta ad addome aperto.
Iniziata l’operazione si notò subito un enorme distensione dello stomaco che fu sufficiente svuotare perché, in pochi secondi, ritornassero normali il respiro e la circolazione. Dopo di che si trovò la causa (una aderenza da precedente intervento che fu subito tagliata) e l’operazione continuò liscia e abbastanza facile con grande soddisfazione di tutti.
Anche il chirurgo e il radiologo che un’ora prima avevano pronosticato la morte a breve scadenza, si attribuivano ora ciascuno il merito della riuscita, affermando solennemente: “quando non si fa la diagnosi, val sempre la pena di aprire…”
Quando il paziente lasciò l’ospedale, ormai perfettamente guarito, volle ringraziarmi. “Le devo la vita, dottore”. “Non a me ma a Dio che mi ha fatto trovare lì quando lei è arrivato”.
“Ma io vorrei fare qualcosa per lei” “allora mi faccia questo favore. Entri nella prima chiesa che trova, accenda una candela all’altare del Santissimo e Gli dica, a nome mio, che Lo ringrazio”.
Nonostante il direttore della clinica dicesse a tutti che mi avrebbe portato alla docenza, di fatto non si diede molto da fare. La prassi corrente esige che i cattedratici si scrivano, si scambino favori, prendano impegni reciproci, procurino raccomandazioni, e tante altre cose che vanno preparate molto tempo prima. Io invece mi trovai il giorno degli esami di fronte a una commissione che non mi conosceva, avendo come unica chance di riuscita la mia preparazione teorica, l’esperienza pratica e le pubblicazioni fatte. Per i primi due giorni d’esame non apparve nulla che mi permettesse di venire in luce. Veniva invece sempre più evidente, dal comportamento dei commissari e da alcune indiscrezioni, chi erano i preferiti. Il terzo giorno era quello della “lectio coram”. Si trattava di una vera e propria lezione, della durata di 40 minuti, che il candidato alla docenza doveva improvvisare, su un argomento tirato a sorte.
Essendo io l’ultimo in ordine alfabetico, quando mi presentai trovai i commissari stanchi e distratti. Invece di tre erano due, perché il terzo era uscito dall’aula. Uno di loro mi chiese il cognome, che faticò ripetere, poi mi disse: “Cominci pure” e nello stesso istante si mise a scrivere un telegramma da consegnare al portiere chiamato lì apposta. L’altro commissario sfogliava una dispensa – non mia – e prendeva appunti su di essa. Vista la situazione, io attesi a cominciare e quando il commissario – quello del telegramma – mi ripeté di cominciare risposi: “Aspetto che lei abbia finito e che la commissione mi ascolti”. Queste parole ebbero un effetto al di là delle mie previsioni. Smisero di scrivere, fecero chiamare il terzo commissario e, guardato l’orologio, si accinsero ad ascoltare. Avevo l’impressione che fossero un po’ seccati da questa mia pretesa, e questo aumentò ancora il mio impegno per dar loro qualcosa di valido. Evitai quindi di dilungarmi nelle premesse e venni subito al nucleo della lezione. Parlavo con concentrazione e rapidamente. Facendo così non ne avrei certo avuto per i 40 minuti previsti, ma era l’unico modo per tenerli attenti. A un dato momento si guardarono, si scambiarono un cenno, poi uno di loro mi disse: “basta così”. Erano trascorsi 12 minuti. Mi diedero la mano e mi sorrisero. Mi sembravano soddisfatti. All’uscita, dei miei colleghi non c’era più nessuno, solo due focolarini che mi aspettavamo per dirmi che ero atteso ad Assisi per un incontro del Movimento. Il risultato mi fu comunicato un mese più tardi: era positivo!
La presenza di persone che volevano essere unite nel nome di Gesù
Partecipare alla Messa quotidiana era sempre più difficile, dati gli orari che non coincidevano col servizio in sala operatoria. Una mattina corsi in cattedrale durante un intervallo e trovai un sacerdote che stava celebrando a un altare laterale. Un’anziana signora, che poi seppi essere sua madre, era inginocchiata alla balaustra e, al momento della comunione, mi misi accanto a lei. Il sacerdote che aveva riservato per lei un’ostia, la spezzò e me ne diede la metà. Il giorno dopo corsi di nuovo in cattedrale alla stessa ora e mi accorsi che il sacerdote aveva consacrato due ostie piccole, una per sua madre e un’altra – evidentemente – per me. Io però non ero solo perché Publio mi aveva seguito. Allora il sacerdote divise in due un’ostia e così facemmo la comunione tutti. Il mattino successivo a Publio si era associato Lucio, e il sacerdote, che pure aveva aumentato di una il numero delle ostie, fu costretto a dividerla per darne una metà a Lucio. La cosa si ripeté il giorno dopo, essendosi aggiunto Enrico, e il giorno dopo ancora, per Umberto e Vittorio, finché arrivammo a undici. A questo punto il sacerdote mise addirittura un ciborio nel piccolo tabernacolo e quell’altare – che notammo allora essere quello della Madonna – conservò da quel giorno l’Eucarestia.
Questo fatto ci piacque perché ci parve significativo che la presenza di persone che volevano essere unite nel nome di Gesù fosse stata occasione per una presenza di Gesù Eucarestia sotto lo sguardo di Maria. In quel tempo non capivamo tanti rapporti che più tardi il Movimento avrebbe sviluppato – l’Eucarestia, Gesù in mezzo, la Chiesa, Maria – neppure si parlava di “Opera di Maria”, nome che solo più tardi venne dato al Movimento dei Focolari – ma si intuiva il legame misterioso che univa le diverse espressioni di una vita che voleva essere la vita stessa di Gesù.
All’uscita dalla messa ci fu ogni volta il problema della colazione; siccome i soldi erano pochi e noi eravamo tanti, ci si limitava in genere a un cappuccino che consumavamo in un bar accanto alla cattedrale. Un giorno qualcuno scoprì un tipo di pasta alla mandorla così pesante che restava sullo stomaco – così diceva lui – per parecchie ore. Ci parve la soluzione, dato che il cappuccino invece se ne andava in fretta… Però l’esperienza non fu la stessa per tutti. Comunque nessuno defezionò, anzi il gruppetto aumentò di numero: partecipare alla Messa, rileggere insieme il Vangelo del giorno, comunicarci nel breve tempo della colazione le esperienze della nostra giornata, fare propositi di vita nuova, era un cibo ben più sostanziale di quello che ciascuno avrebbe trovato a casa sua.
Abbiamo incontrato il Signore
Una domenica i focolarini di Firenze mi chiesero di recarmi da una ventina di persone del Movimento per invitarle a un incontro la domenica successiva. Era caldo, e tutta la giornata la trascorsi cercando di raggiungere a piedi le suddette persone. Ma alcune non c’erano, altre erano occupate, altre dissero chiaramente di no. Alla sera ero proprio stanco e parecchio addolorato. “Come mai – mi domandavo – forse non le ho abbastanza amate per convincerle? Forse non ho avuto abbastanza fede?”
Mentre rientravo, mi raggiunse in motocicletta un focolarino: “vieni subito con me – mi disse – il figlio di… ha avuto un incidente”. Salii sul sedile posteriore della moto e partimmo; l’Ospedale era a una quindicina di chilometri, faceva ormai scuro e nonostante la giornata fosse stata calda, ora – specialmente correndo veloci – faceva freddo. Io mi tenevo rannicchiato dietro al focolarino che guidava, quando improvvisamente questi rallentò e si fermò. Alzai la testa per vedere cosa c’era e vidi una processione che veniva verso di noi. Scendemmo e ci raccogliemmo nell’attesa di poter proseguire. C’erano i chierichetti con i ceri accesi, i sacerdoti con le cotte bianche, il baldacchino e l’ostensorio dorato, tenuto in alto dal sacerdote. Mi feci, come tutti, il segno della croce e, quasi senza pensarci, mi attardai a fissare l’Ostia. Quel disco bianco appariva ai miei occhi – e ancor più alla mia anima – più bianco dei camici dei sacerdoti, più luminoso della luce dei ceri, più prezioso dell’oro dell’ostensorio. A tal punto che tutto ciò che gli faceva da contorno sembrava non avesse valore. E non si sarebbe neanche detto un disco ma qualcosa che aveva un volume, quasi un piccolo globo che – forse per la luce del crepuscolo – appariva ora con sfumature cerulee. “L’Ostia non è infatti qualcosa – mi venne spontaneo pensare – è Qualcuno!” E il pensiero divenne preghiera: “Ti ho cercato tutto il giorno, Signore, ora ti trovo”. La processione era terminata e io continuavo a starmene raccolto. “Che hai?” mi chiese il focolarino che mi accompagnava. “Abbiamo incontrato il Signore”. Non riuscii a dire altro, ma il focolarino intuì. Ripartimmo e io non sentivo più freddo.