1a parte
Dalla biografia su Enrico Cavallini “Come una volpe dal fiuto sottile” ad opera di Marco Bernardini, che si puo’ comprare on-line su Città Nuova, abbiamo trovato un intero capitolo, il terzo, molto interessante, dedicato al rapporto tra Maras e Cavallini che riportiamo integralmente, suddiviso in tre pubblicazioni che si susseguiranno nel blog.
Ci sembra utile, fare una breve introduzione: Enrico Cavallini, medico e pioniere dell’anestesia in Italia, (vedi anche “La Spezia onora Enrico Cavallini” su questo blog) è stato un grande specialista nella disciplina, ma il suo primo maestro non è stato altro che Maras Alfredo Zirondoli. Infatti è stato Maras nel suo periodo a Pisa come professore della cattedra di anestesia in quella università, che l’ha avuto come allievo e quindi ha avuto modo di conoscere Cavallini, di introdurlo nella specialità e facendogli conoscere nello stesso tempo, la spiritualità di Chiara Lubich, al punto che Cavallini diventerà in seguito un focolarino sposato. L’autore del libro, Marco Bernardini, anche lui focolarino sposato, ha conosciuto bene entrambi, e per raccontare la biografia di Cavallini è andato ad intervistare personalmente Maras, in quei tempi già ammalato. Si capisce quindi la qualità di questa testimonianza su Cavallini e che allo stesso tempo evidenzia la ricca personalità di Maras.
“Una figura speciale”
Eccomi a Firenze. Sono arrivato alla stazione di S. Maria Novella nella tarda mattinata in una bellissima giornata di primavera avanzata. Il viaggio è stato molto comodo, rapido e soffice. In testa al binario mi attende Bruno Dal Molin. La sua presenza mi commuove ricordando tante esperienze vissute insieme al tempo di Enrico. Lui pure è appena sceso dall’espresso proveniente dalla Spezia per fare con me un incontro importante: quello con Alfredo Zirondoli, il professore.
Ci avviamo spediti a piedi, felicissimi di esserci nuovamente incontrati, dirigendoci verso l‘Arno. Il percorso non è molto. Superiamo Piazza S. Maria Novella non prima di aver gettato qualche occhiata alla splendida facciata di questa chiesa, tutta incrostata di marmi, ridefinita nel ‘400 da Leon Battista Alberti. Grandioso il classicheggiante portale. Ma non possiamo distrarci e si prosegue senza indugi. Arriviamo nei pressi del Ponte alla Carraia, pieghiamo a sinistra ed eccoci in Piazza Rucellai. Qui abita Alfredo.
La casa dove egli è ospite d‘amici, è utilizzata unicamente da lui e da Angiolino che lo accudisce con particolari premure. Alfredo ha superato gli ottant‘anni e in questo periodo sta seguendo un intenso ciclo di cure. La sua salute è malferma. Bruno e io siamo accolti con molta festa e desiderosi di ascoltare il suo racconto. Il motivo è semplice: lui è stato il maestro che ha insegnato ad Enrico l‘anestesiologia. Coetanei, medici entrambi, la loro storia si fonde e si confonde in un intreccio di comuni esperienze mediche ed etiche, umane e spirituali. Ci aiuta al raccoglimento anche la particolare atmosfera di questa casa fiorentina. C’è molto silenzio e intorno, sia all‘ingresso che nella sala, bellissimi dipinti che si sposano assai bene con i mobili d‘epoca, lucidati a cera. Il cotto fiorentino completa l’insieme.
Alfredo conobbe la spiritualità di Chiara Lubich subito dopo la laurea quando a Milano seguiva il corso di specializzazione in anestesia. Era il 1950. Frequentava la “Cardinal Ferrari” dove si appoggiavano tanti studenti provenienti da altre città. Lui veniva dall‘Emilia. A sera, durante la cena, vivevano il momento della distensione, del vociare gioioso, dell’allegria, del disimpegno. In quelle circostanze incontrava tra gli altri: Oreste Basso, Piero Pasolini, Giorgio Battisti, Guglielmo Boselli che sarebbero diventati stelle di luce viva nel firmamento focolarino. Erano laureati che si specializzavano in varie discipline: chi in fisica, chi in medicina, chi in ingegneria, chi in architettura. Il rapporto tra loro era educato, amichevole anche se molto formale, come avveniva in quel tempo agli inizi degli anni cinquanta. Si davano del “lei” con i rispettivi titoli: dottore, ingegnere, architetto.
Una sera, in prossimità della cena, Giorgio Battisti chiese ad Alfredo se avesse qualcosa da fare a pasto finito. No, rispose. Lo invitò a rimanere per un incontro durante il quale gli avrebbe fatto conoscere una signorina. La cosa lo stupì. Incuriosito si fermò. Conobbe Ginetta Calliari e alcune sue compagne. Rimase turbato. «Avvertii che non era il solito saluto, sentii che lei era veramente contenta di conoscermi. In lei c’era una grande realtà che io non conoscevo». Il clima si diffuse. Altri colleghi, sospingendo i loro tavoli, si avvicinarono perché avevano colto in qualche modo ciò che stava accadendo. Intanto ecco la pastasciutta. Tutti iniziarono a mangiare con buona lena, ma i loro occhi rimanevano fissi su Ginetta. La pasta era davanti a lei, ma non la toccava. Raccontava, invece, quanto accadde a Trento nel periodo della guerra e i primi passi del Movimento, la storia di Chiara e delle prime focolarine.
«Noi – dice Alfredo – eravamo passati intanto dal primo al secondo e poi alla frutta; ma Ginetta continuava a non mangiare, presa com’era dal racconto. Era venuta da Trento a Milano per incontrare i suoi amici e io ero stato accolto lì con loro, e questo mi piaceva». Capì che quanto avveniva meritava un approfondimento. Quello che diceva Ginetta e soprattutto come lo diceva poneva molti interrogativi. Maras avvertiva la novità del messaggio e una grande gioia sembrava invaderlo.
Ad un certo punto Ginetta fece un breve cenno alle compagne perché intorno alle 23 avrebbero avuto un appuntamento presso una famiglia. Bisognava muoversi. Il suo arrivo a Milano prevedeva un‘agenda molto fitta d‘incontri. La forchetta era ancora immersa nella pasta e lì rimase.
«Il suo linguaggio mi stupiva, era nuovo per me, ne fui attratto». Il gruppetto d‘amici decise di accompagnare le ragazze e Alfredo si unì a loro. Salirono sul tram, in un ambiente quasi solitario, in una città poco illuminata, ritirata e deserta che contrastava con la gioia esplosiva di questo strano gruppetto. Arrivarono. Furono accolti da una festosa famiglia. La conversazione fu intensa e lunga. Ginetta illustrò i punti salienti della rivoluzionaria esperienza di Chiara e delle prime focolarine. Lei era una di loro. Si soffermò su quelle particolari illuminazioni che “la ragazza di Trento” aveva avuto. Da Chiara, diceva, si sprigionava una carica intensa di divino e d’umano insieme, tanto che le persone al suo contatto si rinnovavano nel cuore e davano spazio ad un nuovo modo di vivere: l’amore scambievole, la condivisione, la Parola vissuta. «Rimasi folgorato. Capii che l’amare gli altri doveva essere fatto a fondo perduto, prendendo sempre l’iniziativa. Non dovevo aspettarmi nulla da nessuno. Fu una rivelazione che immediatamente mi piacque, che subito feci mia».
Il giorno dopo Alfredo, di buon mattino, fece subito alcune cose in un modo diverso. Si alzò dal letto facendo molto silenzio per non svegliare la padrona di casa. Uscì senza disturbare e prese il tram, dando il biglietto al controllore che ringraziò quando glielo restituì. Arrivato alla clinica, dove seguiva la specializzazione, salutò per primo, sorridendo, il guardiano. Lui di rimando, con occhi spalancati: «Dottore come sta?».
In sala operatoria, mentre attendeva con scrupolo al suo impegno, faceva un enorme fatica a non distrarsi perché il suo pensiero correva a Ginetta, la sua testimonianza, la sua gioia, la luce che aveva negli occhi, il suo meraviglioso racconto. Una ginnastica continua, faticosa tanto che alla fine della giornata si ritrovò molto stanco. A sera chiese a Ginetta, giacché si sarebbe fermata per un paio di giorni, come ciò fosse possibile. Volle sapere se lei pure si stancava a vivere l’intera giornata con tale concentrazione. “Assolutamente no, perché io vivo l’attimo presente “. Ecco il segreto. Vivere momento dopo momento.
Tutte le sere il gruppetto milanese si ritrovava compatto a cena. Ormai era diventato un appuntamento atteso, festoso e fraterno. Si scambiavano tra loro non più i fatti di natura professionale, ma come erano riusciti a vivere ciò che Ginetta aveva detto loro. Lentamente la loro vita cambiò perché l’anelito a vivere in quel modo divenne l‘obiettivo principale della loro esistenza. Intanto altri si avvicinarono attratti da quel gioioso vociare, da quell‘allegria piena ma composta, prorompente ma misurata. Il piccolo gruppo aumentava. Tutti volevano sapere e ascoltavano attentamente.
Il corso d’anestesia durava un anno. Assieme ad Alfredo c’erano altri sette colleghi. Al termine del corso questi medici specializzandi avrebbero sostenuto l‘esame finale. Era un traguardo molto ambito perché in quel tempo tale specializzazione avrebbe aperto delle interessanti prospettive professionali considerando che tale specialità era ai primordi. Alfredo si dedicava con molta attenzione allo studio ma tuttavia come non pensare che nella sua mente e nel cuore non fossero entrate anche altre, profonde attrattive innescate dall‘incontro con Ginetta? Il timbro della sua vita era cambiato, il suo sguardo era diventato profondo e luminoso e la nuova grammatica esistenziale era alla base della sua vita in tutte le sue espressioni. Ebbe modo di capirlo assai meglio durante l’estate successiva quando andò a Pozza di Fassa dove si svolgeva la Mariapoli. Era l’estate del 1953. Chiara si era fratturata la clavicola e le focolarine a lei vicine, che conoscevano Alfredo, suggerirono di affidarsi alle cure di questo giovane medico. Iniziò con lei una serie d’incontri che lo portarono lontano, in una scoperta piena e affascinante dell‘Ideale, che lo fece approdare alla scelta di Gesù come unico tutto e alla scoperta di Dio-Amore. In parallelo, a Chiara non sfuggì la notevole levatura spirituale del giovane medico. Alfredo aderì con tutto il cuore a quanto aveva scoperto e subito, senza indugi, divenne focolarino. Si gettò con tutto l’ardore e la passione in questa nuova avventura che si presentava luminosa e piena di gioia; ma nel contempo capì che tale scelta gli avrebbe comportato dolori e sofferenze perché avrebbe richiesto la morte del proprio io e delle proprie inclinazioni. Eppure l‘attrattiva era così forte che non riuscì a concepire altro tipo d’esistenza se non questa. Alla scuola di Chiara lui pure scelse Dio come unico tutto e s’incamminò su questa strada che doveva portarlo lontano in un tipo d‘esistenza che mai avrebbe immaginato.
Intanto a Milano il corso di specializzazione in anestesia era terminato e il prof. Alfredo Zirondoli, giacché era diventato docente, si classificò primo agli esami finali. Nessuno si stupì perché tutti riconoscevano le molteplici doti che erano così evidenti in quel brillante venticinquenne…
L’istituto universitario prevedeva l‘assunzione del primo classificato perché il posto a disposizione era soltanto uno. Posto ambito per le immediate e promettenti prospettive professionali. A risultati noti, Alfredo si accorse che nel gruppetto degli specializzati c’era un collega milanese divenuto serio e preoccupato, assai triste che si era molto impegnato durante il corso per ottenere alla fine l‘inserimento nella struttura universitaria. Purtroppo era arrivato secondo. Per lui non c’era posto. Avrebbe anche voluto sposarsi. Doveva rivedere i suoi progetti. In quel momento Alfredo si ricordò di Ginetta e del pregnante messaggio che ormai era diventato il motivo della sua vita. “Saper perdere – pensava –, saper perdere per amore“. Non ebbe un attimo d‘esitazione: subito cedette quel posto al suo amico. La voce si diffuse con le più varie modulazioni verbali: «Ma è matto», «È una decisione irresponsabile», «Forse non si rende conto», «Ma come! Perdere un’occasione come questa». Eppure proprio questo chiedeva il nuovo stile di vita definito in modo sintetico: l‘Ideale. Zirondoli, molto apprezzato dalla struttura, venne incoraggiato ad inserirsi come assistente volontario. Iniziò un proficuo rapporto di collaborazione e d’intesa col direttore del corso. In breve diventò un elemento di spicco in quel reparto e le sue conoscenze mediche specifiche si allargarono e si approfondirono. Rivelò ben presto abilità e maestria nel muoversi accanto al malato e la piena stima dei suoi superiori non tardò ad arrivare. Scattò un profondo rapporto fiduciario col direttore. Le cose si evolsero. In base ad una nuova topografia accademica del settore, proprio il direttore decise di trasferirsi a Pisa, presso quell’università. Alfredo, come assistente, venne incoraggiato a fare altrettanto. Nel preparare il bagaglio ricordò molto bene quanto gli aveva detto Ginetta, debitamente informata secondo il patto di reciproca unità ormai inaugurato da tempo: «Porterai l’Ideale a Pisa». E così avvenne. Al suo contatto “nacquero” i fratelli Dal Soglio: Publio, Lucia e Flavio. Avvicinò Beppe Giannettini, medico, avanti nell’età, che viveva a La Spezia. Anche Umberto Giannettoni e Vittorio della Torre, entrambi pisani, conobbero Alfredo. Divennero focolarini.
Mentre Alfredo parla, si vede che fa fatica e spesso si ferma. La voce è morbida, velata, a tratti appannata, un po’ tenue, perfettamente cadenzata. Il suo racconto si snoda lungo un sentiero colmo di emozioni, di ricordi caldi e sempre presenti, in modo pacato, sereno, quasi solenne. Mi conquista il clima e la perfetta intesa che scatta con lui. In questa realtà che sembra magica, impregnata di divino, tutto si dissolve, tutto scompare. Avverto che questa sorta di totale svuotamento intellettuale mi procura una sensazione di grande piacevolezza, quasi di leggerezza corporea, avvolto da una splendida atmosfera fatta di confidenza e di profonda intesa. Mi accorgo che a Bruno accade la stessa cosa.
Alfredo con quel suo volto ampio, disteso, sempre leggermente sorridente, invitante e accogliente, con quei suoi grandi occhi chiari e molto espressivi piantati su di noi, racconta la storia di Enrico. Essa è anche la nostra storia e in parte è anche la sua. Sono attratto dalla narrazione e dalla rievocazione precisa e puntuale di avveni- menti e circostanze di tanto tempo fa. Mi accorgo che in lui e in noi non ci sono nostalgie, non appare nessun rimpianto di quel tempo passato, sì semmai un po’ di commozione e profonda gratitudine a Chiara che un giorno ci trascinò in questa grande avventura.
Alfredo sarebbe venuto a mancare sei mesi dopo il nostro incontro. Le sue parole rimangono scolpite in noi e la sua testimonianza costituisce una grande eredità. Questo racconto è anche un inno alla sua memoria. (continua)