Maras e Enrico Cavallini – Terza parte

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Enrico Cavallini

Dalla biografia su Enrico Cavallini “Come una volpe dal fiuto sottile” ad opera di Marco Bernardini, edito da Città Nuova, abbiamo trovato un intero capitolo, il terzo, molto interessante, dedicato al rapporto tra Maras e Cavallini che riportiamo integralmente, suddiviso in tre pubblicazioni che si susseguiranno nel blog. (vedi anche l’introduzione*)

“Una figura speciale”

Segue dalla seconda parte:

…Qualche giorno fa sono andato a Loppiano, la città dei focolarini in provincia di Firenze, per incontrarmi con Umberto Giannettoni che nel 1955 viveva a Pisa. Quando ho saputo casualmente questo particolare, non ho esitato e sono andato da lui. C’incontriamo in un comodo salotto dove c’è molto silenzio, proprio adatto per il mio piccolo registratore. In quegli anni Umberto frequentava ragioneria ed era socio di un’associazione sportiva: quella della pallacanestro. Conobbe Zirondoli durante una conferenza sullo sport. Maras, appena uscito dalla sala operatoria, non ebbe il tempo di prepararsi in modo specifico. Raccontò allora quello che faceva, soprattutto “come” lo faceva, il suo rapporto con gli ammalati, con i moribondi, con i loro parenti. Grande lo stupore degli atleti. Non era mai accaduto che uno venisse a raccontare la sua vita. E poi una storia così affascinante! Una volta incrociò Zirodoli in città, a bordo della sua “500”. Brevi saluti e un invito: «Senti, perché non continuiamo a vederci? Anzi, potresti chiamare anche qualcuno dei tuoi amici». Era una proposta nuova che piacque ad Umberto. S’incontrarono e nacque una piccola comunità spontanea. Gli incontri divennero frequenti e molti rimasero attratti da questa nuova vita. Questo stile fu portato nella scuola, tra gli amici, nella “sportiva”. Nasceva un nuovo modello di relazione con gli altri. L’iniziativa prese piede e si allargò. Cominciarono a partecipare ragazzi, ragazze, professionisti, operai. Iniziarono a scambiarsi le prime esperienze di vita vissuta.
«Un giorno Alfredo venne con alcuni suoi amici medici e ce li fece conoscere. Uno di questi era Enrico Cavallini». Raccontò il rapporto che c’era tra loro e in particolare l’esperienza che viveva col giovane specializzando spezzino: «Un compagno marxista, non credente, col quale c’era una grande intesa». Anche Umberto mi racconta che Enrico «era lontanissimo dalla religione. Uomo d’estrema sinistra, aveva un pensiero opposto a quello cattolico». Una domenica mattina partirono insieme, loro tre, per andare a Firenze a conoscere gli amici di Alfredo. La meta era il focolare. «Il viaggio fu molto interessante. Enrico parlava col suo linguaggio infarcito di tanti termini laici, ma si sentiva che aveva ricevuto una grande luce, come una rivelazione. Si sentiva che era stato in Mariapoli. Tuttavia non capiva perché tutti i cristiani non vivessero in quel modo. Non comprendeva perché questa vita così bella e affascinante, vera ed essenziale, non fosse diffusa tra i credenti». Era pieno di zelo, di tanto entusiasmo, di luce piena. «Una sorta di novello san Paolo». La scoperta che aveva fatto, della quale doveva ancora definirne i contorni, si tramutò in una carica esplosiva che comunicava ovunque. In qualsiasi tipo d’incontro, create le giuste condizioni, cominciava la sua storia: «Alfredo, che non conoscevo, mi venne incontro sorridente. Pensavo si sbagliasse scambiandomi con un’altra persona …». E così via.
Nella tarda mattinata, Alfredo e altri si prepararono per uscire. Enrico sarebbe rimasto in focolare con alcuni di loro. Si sarebbero ritrovati tutti insieme a pranzo. Volle sapere. «Andiamo a Messa», spiegò Alfredo. «Bene. Vengo con voi». Un attimo di sospensione. Poi via tutti, in Duomo. Arrivò il momento della Consacrazione e quello dell’Eucaristia. Mentre il gruppetto si stava preparando in modo compunto, mettendosi in fila, Enrico bisbigliò all’orecchio di Alfredo una breve frase che lo fece sussultare: «Vengo anch’io». Enrico non sapeva nulla della vita cristiana, non conosceva le pratiche di pietà, né le preghiere, né i sacramenti. Tuttavia era rimasto affascinato dall’amore vissuto e dal desiderio profondo di vedere Gesù in ogni persona che incontrava. Alfredo considerò in un lampo tutte queste cose e, preso a parte, gli disse: «Forse sarebbe meglio che prima tu ti confessassi». «Ma cosa devo dire?». «Non ti preoccupare, sarà il sacerdote a dirti come fare». Alfredo andò lui a confessarsi per primo e quindi espose la questione. La disponibilità del confessore fu totale. Quindi toccò ad Enrico. Ciò fatto si mise in fila e fece la Comunione.
«Quando uscimmo dalla chiesa – ricorda Umberto – vedemmo in Enrico la felicità piena. Era luminoso con una gioia incontenibile. Raggiante». Rimase affascinato dal modello di vita che aveva incontrato. La religione venne dopo. Quel timbro che l’aveva conquistato non fu passeggero ma si impresse dentro di lui in modo indelebile.
Terminato il periodo pisano iniziò l’attività a La Spezia, la sua città. In ogni circostanza, sul lavoro, in famiglia, ovunque, voleva “essere” quella realtà che aveva incontrato. Gli divenne familiare parlare di unità, di amore scambievole, di Gesù in mezzo ai fratelli. Una volta in treno, mentre stava viaggiando con altri passeggeri, cogliendo lo spunto da un’osservazione che uno di questi fece su un fatto banale, gli venne naturale comportarsi ed esprimersi secondo la vita che aveva incontrato. Tra questi c’era una ragazza abbastanza disinibita e disinvolta, assai appariscente. Lui capì e portò il discorso sulla carità. Riuscì a trasmettere a quella persona la carica del suo Ideale. Lì, su due piedi, durante un viaggio in treno. Aiutò quella persona ad uscire mentalmente dal suo mondo, proponendone un altro.
Con il cuore pieno di luce si incamminò, dunque, per questa strada che divenne la sua. Non si voltò indietro. Non ci furono dubbi. Non apparvero incertezze. Ciò che aveva scoperto riempiva finalmente quel vuoto deludente che aveva avuto sempre nel cuore. Fu una scelta definitiva anche se molto combattuta. Ma questo sempre accade in frangenti del genere. D’altra parte era l’unica possibilità che aveva per dare senso alla sua vita. Gli si affinò lo sguardo, divenne più acuta la capacità di capire ciò che accadeva intorno a lui. Riuscì ad entrare nel cuore e nell’anima delle persone che incontrava. Venne a contatto con le loro gioie, le loro tristezze, i loro successi, le loro disperazioni, le esaltazioni, le angosce. Tutta materia prima che diventava immediatamente “sua”. Nacque allora un nuovo rapporto con gli altri. Comprese come proprio gli altri rappresentassero una formidabile occasione per procedere lungo quella grande prospettiva di vita indicata da Chiara. Gli altri non erano ostacolo, ma pedana di lancio. Fu più attento, più comprensivo, più paziente, più gioioso con un volto connotato da un’espressione serena. E questo metteva a loro agio le persone, pazienti o amici che fossero, perché coinvolte in un diffusivo clima di gioia. Divenne esigente con sé stesso perché la grande scoperta richiedeva fedeltà e costanza. Comprese anche come fosse necessario pagare costantemente un “prezzo”. Significava, come dice san Paolo, far nascere in noi l’«uomo nuovo» sulle ceneri dell’«uomo vecchio», sempre tardo a morire. Tutto appariva nuovo in ciò che aveva scoperto. Certamente il mondo era quello di prima, pieno d’attrattive umane, di desideri, di tante cose, con una gran voglia di benessere e d’affermazione; ma quello che aveva scoperto lo portava ad immergersi nella realtà d’ogni giorno con uno spirito diverso, mosso da una molla mai prima conosciuta: l’amore. Una scelta così grande e ardita comporta sempre dei passaggi difficili. Come se Dio voglia verificare di continuo la fedeltà di ciascuno. È l’invito costantemente rivolto alla persona di “rinnegare sé stessa”. Di lasciare posto all’altro, all’amore, di cui è intriso l’intero messaggio evangelico. Di “dare la vita ” per l’altro. L’occasione per vivere in quel modo si presentò ben presto.

Ero già anestesista all’ospedale di La Spezia quando una sera, dopo essere stato molto a lungo in sala operatoria e di conseguenza aver involontariamente inalato molto gas anestetico, come accade spesso agli anestesisti; mi scoppiò un terribile mal di testa, con nausea e vomito. Stavo coricato a letto, al buio, quando giunse una telefonata da un ospedale vicino che chiedeva, su insistenza dei parenti; un consulto per una bimba di due anni: Simonetta, ricoverata con una grave sindrome d’annegamento. Non mi sentivo in condizioni fisiche di andare; inviai pertanto il mio aiuto, il quale mi riferì che non vi era alcuna possibilità di rianimare la piccola paziente.
Subito si presentarono a casa mia il padre e il nonno della bambina che mi pregarono a mani giunte di intervenire. Ricordai gli insegnamenti non solo medici ma soprattutto etici del mio maestro anestesista e, contemporaneamente, l’impegno preso a vivere con coerenza la mia vita cristiana. Riconobbi allora in quel genitore disperato il prossimo da amare, malgrado fossi convinto dell’inutilità del mio intervento, andai ugualmente. Il caso era veramente disperato poiché il liquido nel quale era praticamente annegata la bambina era inquinato da detersivi.
Quell’ ospedale non era attrezzato per una terapia rianimatoria. Non pensai al quasi sicuro insuccesso, alle eventuali critiche dei colleghi offesi o ai risvolti legali, qualora la bambina fosse deceduta durante il trasporto. Presi in braccio la piccola e pregai l’autista dell’ambulanza di correre al mio centro di rianimazione. Ad ogni curva, ad ogni sorpasso, la testa sembrava scoppiarmi poiché il mal di testa era nel frattempo peggiorato. In pochi minuti arrivammo e subito iniziai le pratiche di rianimazione e di terapia intensiva. Per alcuni giorni tutto sembrò inutile; poi i primi segnali di miglioramento del respiro. Questi mi confermarono che gli sforzi non erano stati inutili. In pochi giorni si arrivò alla guarigione completa. I genitori di Simonetta mi regalarono una sua fotografia. Da anni la tengo sulla scrivania del mio studio e mi dà una gran gioia pensare che oggi la mia piccola paziente è una giovane donna. Nei momenti di stanchezza mi ricordo di quell’episodio e allora anche le preoccupazioni più grandi prendono un significato positivo e mi invitano ad andare avanti sul cammino iniziato.

Enrico Cavallini, medico che conobbe l'Ideale via Maras

Enrico Cavallini

La piccola paziente rimase in coma per 28 giorni, quando una mattina aprendo gli occhi, disse: «Mamma». Questo accadeva nel 1967.
Dopo una minuta ricerca sui giornali del tempo, il caso infatti, fece notizia, e utilizzando internet, sono riuscito a risalire a quella famiglia di Sarzana, in provincia di La Spezia. Mi sono messo in contatto telefonico con loro e ho parlato, che sorpresa! Proprio con Simonetta, la bambina di quel tempo. Viva concitazione, momento commovente, forse qualche lacrima. Oggi è una bella signora di 43 anni con due figlie, una delle quali l’ha resa nonna. La conversazione è stata molto piacevole e toccante, ma soprattutto viva perché dopo quella vicenda di quarant’anni fa, della quale ovviamente nulla ricorda, continuò a frequentare il dott. Cavallini.
Enrico, infatti, volle seguirla negli anni. Ciò che era accaduto da piccola, pensava, quali postumi avrebbe potuto determinare in seguito? Quando Simonetta si accorse di essere incinta subito andò da lui. Grande fu la gioia di entrambi. La commozione fu intensa e il medico capì che con questo secondo miracolo, tanti pericoli che paventava erano scongiurati. Si abbracciarono a lungo. Enrico, commosso, la salutò augurando ogni bene al “figlio tuo e figlio mio”.

CRESCITA UMANA ED ETICA

La ventata innovativa riguardante l’anestesiologia arrivò a La Spezia. Ormai il nuovo batteva alle porte. Il salto qualitativo che fece l’Ospedale Civile della città in questa disciplina ebbe un indiscusso protagonista: Enrico Cavallini. Con lui entrarono le nuove tecniche apprese a Pisa, che prevedevano, tra l’altro, l’uso dei vari gas inalanti e la possibilità dell’intubazione. Enrico si dedicò con molta determinazione, coraggio e pervicacia alla sua attività dando risalto alla disciplina. Non aveva altre distrazioni in campo medico. Non fu attratto dal doppio lavoro come altri facevano per attenuare le incertezze del proprio futuro: ospedale e studio privato. Enrico non ebbe dubbi. La sua scelta fu precisa e univoca. Puntò tutto sull’ospedale gettandosi con entusiasmo, impeto e fiducia in quell’attività nella quale credeva e dalla quale avrebbe riscosso tanti successi. Senza alcun appoggio né politico né medico «e oggettivamente molto bravo – sottolinea Franco Bernardi -, innamorato dell’anestesia, preparatissimo e sicuro di sé, s’impose all’attenzione di tutti».
Aldo spesso lavorava con lui durante la specializzazione. Notava la sicurezza e le capacità con le quali si muoveva in sala operatoria. Si era accorto della bellissima intesa che aveva con le persone del reparto e del caldo e affettuoso rapporto che instaurava con i pazienti. Confessa con sincerità che «quando Enrico si assentava momentaneamente, mi sentivo subito solo e un pò agitato, al contrario di lui che invece vedevo sempre tranquillo e sicuro in ogni situazione». Enrico era molto stimato dai colleghi. I chirurghi videro ben presto in lui una grande risorsa per il successo del loro lavoro. Lo volevano avere vicino. Le tecniche introdotte dal nuovo reparto consentivano alle sedute operatorie di avere costantemente un perfetto controllo del paziente e permettevano al chirurgo di dedicarsi unicamente, con molta serenità, al suo specifico lavoro. La “gestione” del paziente era ormai lasciata ad Enrico che si muoveva con molta destrezza. Lui e l’operatore si muovevano in perfetta sintonia. Proprio il giusto clima per trattare il malato. Il rapporto di fiducia col chirurgo era tale che ormai anche il decorso operatorio veniva affidato interamente a lui. Enrico seguiva con amore il paziente fino alla completa guarigione. La sua dedizione era totale e capace di infondere un grande senso di conforto. La scuola di Alfredo Zirondoli dava i suoi frutti e non soltanto quelli di natura medica …

*Introduzione
Ci sembra però utile, fare una breve introduzione: Enrico Cavallini, medico e pioniere dell’anestesia in Italia, (vedi anche “La Spezia onora Enrico Cavallini” su questo blog) è stato un grande specialista nella disciplina, ma il suo primo maestro non è stato altro che Maras Alfredo Zirondoli. Infatti è stato Maras nel suo periodo a Pisa come professore della cattedra di anestesia in quella università, che l’ha avuto come allievo e quindi ha avuto modo di conoscere Cavallini, di introdurlo nella specialità e facendogli conoscere nello stesso tempo, la spiritualità di Chiara Lubich, al punto che Cavallini diventerà in seguito un focolarino sposato. L’autore del libro, Marco Bernardini, anche lui focolarino sposato, ha conosciuto bene entrambi, e per raccontare la biografia di Cavallini è andato ad intervistare personalmente Maras, in quei tempi già ammalato. Si capisce quindi la qualità di questa testimonianza su Cavallini e che allo stesso tempo evidenzia la ricca personalità di Maras.

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About Luca Tamburelli

Sposato e padre di fue figli, vivo in Francia, a Annonay, presso Lione. Sono amico di Maras e di moltissimi suoi amici.