Autobiografia
L’orchestra
Durante l’estate mi concedetti una sosta dallo studio e ne approfittai per aderire a un invito fattomi di partecipare come violino di fila, a una tournée di concerti, con una piccola orchestra messa insieme un po’ alla buona.
Mi trovai, quasi senza prove, a cimentarmi con l'”Incompiuta” di Schubert (che sudata!), con la “Missa pontificalis prima” di Perosi e la “Danza delle ore” dalla Gioconda di Ponchielli, la stessa opera che all’età di sette anni mi aveva così fortemente impressionato.
L’esperienza dell’orchestra è molto diversa se guardata nel suo insieme, come avviene per il pubblico, o nei particolari, come può essere per i singoli esecutori. Però è sempre entusiasmante perché dà l’idea del “corpo” e fa vivere “a corpo”, un corpo fatto di tante membra che funziona solo se c’è unità fra tutte. Con le mie nozioni di medicina capivo molto bene la differenza fra membro e parte: il primo è unito, la parte è divisa. E vedevo, in pratica, che quando uno si limitava alla sua parte, considerandosi appunto parte e non membro – invece di aver in sé tutti gli altri ruoli, come fa il direttore d’orchestra – l’armonia non si raggiungeva e l’effetto sul pubblico non c’era. L’effetto, che poi strappa l’applauso, nasce da un ciak che fonde misteriosamente il direttore e i membri dell’orchestra, un ciak occasionato dalla musica, ma attuato dall’apporto di tutti. E’ un qualcosa che trascende il singolo e anche la somma dei singoli, una dimensione nuova che si raggiunge e nella quale i singoli trovano il loro senso pieno. Certe note isolate degli ottoni, per esempio, certi pizzicati sempre uguali dei contrabbassi trovano non nel canto, cui fanno da accompagnamento, ma nell’armonia che ne risulta, il loro significato, la loro bellezza, la loro novità.
Questo, che prende il pubblico non meno degli orchestrali, fu per me un’esperienza fortissima, un’esperienza di vita che mi fece riprendere lo studio della medicina in una prospettiva nuova: cercar di conoscere bene a quali condizioni la vita dell’uomo si esprime e cosa deve fare il medico per aiutare o ripristinare la salute che della vita è una manifestazione.
Capii, in pratica, che come nell’orchestra i vari strumenti devono essere in armonia non solo fra loro ma anche con la musica loro proposta – che sola dà senso al loro essere e al loro suonare – così quel ciak misterioso che è la salute si realizza se tutti gli organi funzionano in armonia fra loro e in armonia a un programma – il programma della vita – che dà significato, superandoli, a ciascuno e all’insieme.
Capii quindi, da un lato l’assurdità di considerare un organo senza tener conto degli altri; dall’altro la necessità di capire il programma dell’uomo intero – e non solo della somma dei suoi organi – per poter inserirvisi dentro e aiutare efficacemente il suo sviluppo. Ed era evidente per me, che avevo tanto osservato gli animali, la sostanziale differenza fra il programma di vita di uno di questi e quello di un uomo, per la presenza in quest’ultimo di un orientamento spirituale che coinvolge e trascende il determinismo delle leggi fisiche e biologiche.
Questo orientamento lo sentivo in me e mi dava la forza di non lasciarmi andare, come tanti della mia stessa età, a piaceri facili o a comportamenti non costruttivi. E lo notavo anche in altri universitari, per esempio Guglielmo Boselli, che giravano attorno all’Oratorio che da anni frequentavo.
Per cui un giorno con alcuni di loro decidemmo di iscriverci alla FUCI, anzi, di costituirne a Carpi una sezione.
La preparazione all’incontro
Cominciammo i “gruppi del Vangelo”. Ogni settimana qualcuno si preparava su un brano del Nuovo Testamento che poi commentava suscitando un dibattito fra i presenti.
Io non ero il presidente del gruppo, sentivo però molto fortemente la responsabilità della buona riuscita di questi incontri e facevo di tutto per trovare sempre nuovi elementi di interesse. Un giorno seppi che si teneva ad Assisi una settimana di studio sulla fede. Siccome i rapporti fra scienza e fede erano un problema per molti, decisi di andarvi anch’io.
Assisi si mi fece una grande impressione, soprattutto le “Carceri” dove tutto parlava di raccoglimento, di armonia, di santità. Poi la cripta con la tomba del Santo, così essenziale, così austera! Qui, una sera ascoltai una meditazione che un sacerdote faceva sulla fede. Non ricordo le sue parole ma ho vivo come fosse ora ciò che, mentre parlava, mi si chiarì dentro. La fede è dire a Qualcuno: “credo in te”, cioè ti ascolto, ti obbedisco, ti amo.
Mi bastò per tutta la sera e per tutta la notte! Al mattino presto mi alzai, uscii da solo e salii alla Rocca. L’aria fredda mi faceva lacrimare, ma dentro bruciavo di commozione.
Avevo una gran voglia di comunicare, ma non sapevo cosa, né a chi, volevo essere solo, ma la solitudine mi provocava sofferenza. Avrei desiderato stare sempre lassù e contemporaneamente sentivo di tornare in città con gli altri. Con l’intelligenza notavo tante contraddizioni, ma nel mio essere sperimentavo la pace.
Quando ridiscesi ad Assisi i miei compagni mi cercavano; non dissi nulla, ma uno di loro si accorse che qualcosa era successo. Saltai la colazione, non riuscii a seguire le conferenze: mi parevano così complicate e le parole così poco incisive! Tornai alla cripta; era tutta illuminata. Non avevo notato la sera prima che ci fosse tanta luce. Stetti lì a lungo con l’impressione di un colloquio che unificava tutte le mie facoltà, dando luce alla mente, vigore al corpo, sicurezza alla volontà: Signore, io credo in te! Che “presenza” la fede!
Quando uscii, mi domandai: “cosa racconterò a Carpi?” Ma la risposta non venne. Comprai allora qualche brochure, mi procurai gli “Atti” della settimana di studio e tornai a casa.
Il giorno della laurea fu una grande delusione per me. Mi trovai davanti una commissione distratta e accaldata (era il 18 luglio e faceva molto caldo) unicamente preoccupata – si sarebbe detto – di finire presto. E io che avevo preparato una tesi sperimentale che mi era costata molti mesi di lavoro! Quello che dissi non fu ascoltato e la stretta di mano che ne seguì con le congratulazioni “per aver conseguito il massimo dei voti e la lode” non cambiò l’impressione che fosse tutta una formalità. Soprattutto mi si confermò ciò su cui già avevo riflettuto durante gli anni dì università: che quel modo di essere “maestri” – così chiamavamo allora i professori in cattedra – non poteva rappresentare per me un modello da seguire, ne una realizzazione che giustificasse il termine “arrivati” che correntemente si attribuiva loro.
Uscito dall’aula, andai in una chiesa e mi fermai a lungo, solo. Non ricordo cosa dissi, né cosa pensai, ma c’era in me una risoluzione forte: fare della mia professione una cosa vera, una realizzazione umana e cristiana che rappresentasse anche per altri un esempio e una testimonianza.
Alcuni mesi più tardi, dopo ricerche varie, mi trovai a Milano, iscritto alla specializzazione in anestesia, deciso ormai a intraprendere una carriera che si presentava allora nuova e promettente.
Vivevo modestamente in una stanzetta in affitto e consumavo i pasti alla “Cardinal Ferrari” un pensionato gestito dai Paolini, vicino alla clinica chirurgica che frequentavo. La mia giornata era molto piena e alla sera, dopo cena, andavo presto a letto.
L’incontro
Alla Cardinal Ferrari c’erano altri giovani professionisti – Oreste Basso, Piero Pasolini, Giorgio Battisti – tutti cristiani praticanti con i quali si fraternizzò ben presto. Prima di andare a riposare si parlava di politica, di economia, di religione e qualche volta anche di concerti alla Scala ai quali l’uno o l’altro aveva partecipato. Io rizzavo gli orecchi – la musica restava sempre la mia passione segreta – ma cercavo di non manifestarlo, data la scarsità delle mie finanze.
Una sera, appena entrato per la cena, mi sentii rivolgere una domanda: “Sei libero questa sera?”. Avendo questa richiesta tutta l’aria di un invito, pensai si trattasse della Scala e risposi prontamente di sì. “Vorrei presentarti una signorina…” Per mascherare il mio disappunto, cercai di inventare una scusa che mi permettesse di ritirarmi in buon ordine, ma la signorina in questione era già lì, di fronte a me, con la mano tesa: “sono Ginetta!” mi disse. “Piacere”, risposi distrattamente. “Sono contenta di conoscerla” replicò lei e fui colpito dal suo accento di sincerità. La cosa mi incuriosì e mi sedetti a tavola. Notai subito che attorno erano sedute molte persone, fra cui i miei amici ai quali lei aveva evidentemente già iniziato a parlare. Non volendo interrompere il discorso, e non volendo neanche entrarvi dentro, mi limitai a osservare.
Non avrei saputo dire quanti anni aveva, perché appariva giovane e matura al tempo stesso, né avrei saputo classificarla come professione (impiegata? studentessa?) cosa che di solito mi riusciva facile. Neppure la provenienza appariva evidente; mi stupì però che dicesse che a Milano aveva trovato tanti semafori, al che mi parve di poter dedurre che non veniva da una grande città. Ma le mie deduzioni non ebbero tempo di andar molto oltre perché fui colpito da quello che disse subito dopo: attraversando un crocicchio quando il semaforo era rosso, trovò dall’altra parte dell’incrocio un vigile che volle farle una contravvenzione. E lei subito pensò: “ma guarda, anche qui c’è qualcuno che esprime la volontà di Dio e la fa rispettare!” Fu per me un autentico shock. Se qualche volta mi era capitato di passare un semaforo rosso, avevo sempre trovato una scusa (non ho visto, sono medico, devo correre in fretta) e soprattutto mai avevo pensato che un vigile esprimesse la volontà di Dio.
Ero ancora sotto questa impressione quando Ginetta disse di aver visto, subito dopo, un ragazzino che scriveva con un carbone sul muro di una casa: abbasso Stalin. Gli aveva chiesto se sapeva chi fosse e, alla risposta che Stalin era il capo dei comunisti, lei aveva replicato: “è tuo fratello!”
Fu un nuovo colpo. Eravamo nel 49 e avevo ancora fresco il ricordo della campagna elettorale dell’anno precedente nella quale si era parlato tanto di Stalin, ma nessuno aveva affermato: è tuo fratello!
Lo stupore iniziale stava trasformandosi in meraviglia e l’impressione di sincerità avuta fin da principio stava diventando certezza di verità. Quello che Ginetta diceva era vero!
Mi disposi allora ad ascoltare con un atteggiamento diverso, ma proprio in quel momento si fece avanti il cameriere per far notare che il secondo si freddava (tutti ci eravamo fermati al primo) e Ginetta si ricordò improvvisamente di un appuntamento per un’ora già passata… Si terminò quindi in gran fretta e tutti, io compreso, ci precipitammo su un tram che ci portò vicino a una chiesa accanto alla quale un gruppo di persone ci attendeva. Nessuno parve accorgersi del ritardo ed entrati in una saletta, cominciò l’incontro.
Fu lì che per la prima volta sentii parlare dell’Ideale e di Chiara, e ascoltai il racconto di una storia – gli inizi del movimento – che mi investì con la forza di un messaggio rivoltomi personalmente. Me ne resi conto ancor meglio alla fine dell’incontro, constatando che molti fra i presenti non avevano provato quello che avevo sentito. Erano rimasti infatti quelli di prima, con qualche nozione in più, mentre io mi sentivo trasformato e nuovo, con una gran voglia di conoscere di più, di fare di più, di vivere di più. Provavo una strana sensazione stimolante e benefica al tempo stesso, dove pace e timore, appagamento e ricerca, gioia e dolore erano mescolati e trascesi in un benessere spirituale e fisico che aveva il sapore delle “beatitudini” e la novità del lieto annuncio del Vangelo.