Una vita sfiorita
Quando era giunto a Parigi la prima volta, El-mi era poco piú che adolescente; difficilmente però si sarebbe potuto dire quanti anni aveva, ché i tratti segnati del volto e l’espressione amara dello sguardo davano l’impressione di una vita sfiorita prima ancora di sbocciare.
Fuggito da casa
Sul marciapiede della stazione dove era sceso alquanto impacciato, fra il vociare dei portabagagli e l’incrociarsi dei carrelli, nessuno si era curato di lui; né la marea di persone frettolose che si imbuca-cavano, disordinatamente monotone, nei «metro» aveva notato i tratti esotici del suo volto e il disagio che da esso traspariva.
El-mi era rimasto a lungo ad osservare tutta quella gente e non sapeva cosa pensare. Fuggito da casa perché i genitori, diversissimi per religione e per razza, si battevano spesso e lo battevano, aveva rischiato tutto pur di arrivare a Parigi che, nell’immaginosa fantasia dell’adolescenza, gli si era configurata come la città della libertà e della gioia.
Un animo sensibilizzato dalla sofferenza
Ma subito il suo animo, sensibilizzato dalla sofferenza, era stato deluso da quello spettacolo di persone — operai i piú — che, sfiduciati e stanchi, pur nella fretta con cui si muovevano, dimostravano una sperimentata certezza che, né al lavoro dove erano diretti, né in qualsiasi incontro della giornata da poco iniziata, avrebbero trovato quella libertà e quella gioia che El-mi aveva sperato esistesse.
Dopo qualche mese El-mi si era dolorosamente convinto che « tutto il mondo è paese ». Non era infatti sostanzialmente diversa la costrizione di tanti che gli si arrogavano a padroni, dalle battiture di cui suo padre lo faceva oggetto; né la solitudine della quale pativa ora — pur fra il chiasso di una società che appariva, a volte, frenetica — era altra cosa dalla noncuranza che lo aveva fatto tanto soffrire quando invano aveva cercato, dal padre musulmano o dalla madre buddista, la rispondenza alle sue esigenze di affetto e di comprensione.
Un giorno, d’improvviso, El-mi si accorse che un occhio non vedeva più bene. Si recò dal medico e questi lo inviò all’ospedale. Là non ci volle molto per capire che la cosa era grave… né lo specialista che lo visitò si fece scrupolo di nasconderglielo: avrebbe perso un occhio.
El-mi non fece molte domande; era troppo evidente l’assoluta estraneità di quel medico — pur sotto l’apparenza di una convenzionale squisita gentilezza — perché gli venisse fatto di aprirsi…! Si chiuse in se stesso e… avanti.
La situazione non cambiò quando, in corsia, si trovò fatto oggetto delle cure « doverose » di infermieri e crocerossine che « a orario » erano perfino disposti a leggergli… qualche pagina di uno dei tanti libri di « storie d’amore » e di « romanzi d’avventure » — unico materiale della biblioteca della clinica — fra i quali egli avrebbe potuto scegliere a volontà.
Ma EI-mi ne aveva abbastanza della propria, per desiderare altre storie e altre avventure… E preferiva guardare attraverso la vetrata il muoversi, certamente più reale, delle persone che si dirigevano ai vari padiglioni, con pacchetti o senza, evidentemente in cerca di qualche ammalato loro parente o amico.
Da lui però non veniva mai nessuno…
Fra i tanti padiglioni, uno ce n’era a cui nell’ora della visita mai nessuno si dirigeva. Era al centro dell’ospedale e aveva una forma tutta particolare. Qualche rara persona, passando davanti alla porta, si toccava con la mano destra la fronte, poi il petto, poi le spalle.
« Che cos’è? » — chiese un giorno al vicino di letto.
« E’ una chiesa » — fu la risposta.
« Cosa c’è dentro? ».
« Niente ».
« Cosa serve? ».
« Ci vanno i preti al mattino ».
El-mi non capi gran che, ma non chiese altro.
Quando usci dall’ospedale con un occhio solo, EI-mi si cercò un nuovo lavoro. Non fu cosa facile, ma alla fine fu assunto da una grande officina meccanica per spazzare i trucioli metallici che cadevano a terra dai torni, ostacolando il lavoro degli operai.
L’ambiente era poco areato, scuro, malsano e il lavoro non molto ben retribuito! Ma di meglio non aveva trovato…
Si mise ad aiutarlo
Una sera che El-mi si indaffarava nello sgombero dei trucioli accumulati nell’ultima pulitura dei torni, si trovò di fronte un giovane operaio che lo osservava sereno e sorridente.
« Vuoi che ti dia una mano a spazzare? — gli chiese — in due facciamo più presto ». E, senza attender risposta, si mise ad aiutarlo.
El-mi non disse nulla; però un nodo gli serrò la gola e la notte non riuscí a dormire. Il mattino seguente per prima cosa cercò dell’amico. Lo vide accanto a un tornio che lavorava, diritto, sereno, sorridente. El-mi avrebbe voluto chiedergli tante cose: perché era cosi sereno, perché lo aveva aiutato, perché sorrideva. Però sul lavoro non era possibile, ma sarebbe ben venuta la sera… Senonché appena si trovò solo con lui, invece di chiedere cominciò a parlare. E raccontò per ore di sé, delle sue delusioni, delle sue amarezze, della sua vita senza senso, senza ideali, senza affetti. L’amico lo ascoltava in silenzio. Alla fine gli chiese:
« Conosci il Vangelo? ».
« No. Cos’è? ».
« Un libro… Domani te lo porto ». E si lasciarono. Il mattino seguente Georges — cosi si chiamava l’amico — fu puntuale alla sua promessa ed El-mi si infilò in tasca il piccolo libro; poi per qualche giorno non si parlarono più; solo a tratti si sorridevano e a sera si ritrovavano a scopare insieme la stanza.
Si sentiva a suo agio come non mai
Una volta, all’uscita, EI-mi fermò l’amico. « Senti — gli disse — mi piace molto quel libro… » — e dopo un attimo di incertezza continuò: « Ma… ci sono delle persone che vivono cosi? ».
« Certo! » — fu la risposta.
« Anche nelle officine? ».
« Dappertutto ». « Me le farai conoscere? ». « Domani stesso ».
L’indomani, domenica, El-mi andò con Georges a conoscere « quelle persone che vivevano cosi ». Era un po’ emozionato perché lui si sentiva tanto diverso e dopo la fuga dai genitori non era mai stato a casa da nessuno. Ma appena si incontrò con loro, fu accolto con tale cordialità che l’emozione scomparve.
Erano tanti, di diverse categorie e di diverse lingue; eppure El-mi si sentiva a suo agio come non mai. Seppe poi che uno di loro lavorava come lui in un’officina meccanica, un altro invece era medico, un altro giornalista, un altro ancora studente; ma erano tutti talmente uguali, nel modo di sentire e di fare, che si sarebbero detti fratelli. « E durante il giorno dove state? » — usci a un tratto El-mi meravigliato che persone del genere non fossero universalmente note.
« Lavoriamo, ognuno al proprio posto ».
« E… cosa fate? ».
« Quello che ha fatto Georges con te ».
Ad un certo punto gli lessero una lettera che altri, da un altro continente, avevano loro inviato; vi si parlava di una città in cui tutti vivevano nell’amore scambievole. Gli fecero poi ascoltare una incisione di canti, misti a saluti, che un gruppo di persone di quella città aveva spedito.
Gli parlarono alla fine di Gesù e della sua Mamma, che è la mamma di tutti, e al termine della giornata, che gli era sembrata un sogno, ma che era vera, Elmi si trovò quasi senza saperlo in una chiesa, dove sull’altare c’era qualcosa che lui non conosceva, con una luce accesa accanto.
Nessuno gli disse nulla, ma El-mi ebbe la certezza che là dentro vi era qualcuno che avrebbe dato anche a lui — El-mi — la gioia di vivere come viveva Georges e come — lo vedeva bene — vivevano quei nuovi amici che ora, più che amici, sentiva familiari suoi».
Alfredo Zirondoli Maras
Nota dell’autore: esperienza raccolta da Maras probabilmente quando viveva a Parigi.