L‘ apostolato
In casa o nella Mariapoli, a Firenze o altrove, Eolo venne di giorno in giorno intensificando un suo particolare apostolato, col quale dall’immobilità svegliava e lanciava le anime all’azione. Incontrando un fratello, si disponeva subito a servirlo, per amore. Esortava, catechizzava, infondeva ardore e speranza, spingeva tutti a donarsi interi a Dio. Ché a Dio -diceva – bisogna dar tutto: non stare a lesinare nel dono. Così aveva fatto lui: aveva donato a Dio la sua salute, i movimenti del corpo, la giovinezza: e non li ridomandava più indietro. «Quando Gesù chiede una cosa, non gli si può dir di no!». E circa le donazioni che si fanno a Dio nei momenti di entusiasmo, ammoniva:
«Gesù ci prende in parola». Come diceva san Paolo: «Dio non si prende a gabbo».
Ormai la visione delle cose era del tutto capovolta. «Com’è diverso il mondo da come lo vedo nella mia cameretta!» – diceva. E faceva vedere che Gesù può essere amato e servito in qualunque condizione, situazione e stato.
Il veloce progresso di quest’anima si capisce se si tien presente questa sua generosità a donarsi, a uscir di sé, non preoccupandosi del buio in cui tuttavia qualche volta si smarriva. Proprio allora si lanciava, con più impeto, ad amare il prossimo: e nell’amore ritrovava il Signore. Era questa la tecnica appresa dai suoi fratelli: e se ne valeva con successo.
Scrivendo all’amico salesiano, alla fine del 1957, gli confessava: «Una volta mi davo da fare per trovare gioia e serenità nelle letture e nello studio, ma mi accorgo sempre di più che non c’è gioia più grande che volerci bene, amarci come Gesù ci ha chiesto».
Quando arrivò anche a lui la notizia, a Lucca, che non si dovevano tenere convegni se il Vescovo non li permetteva, Eolo passò giorni di trepidazione, in cui assillava la mamma chiedendole: «Dì, mamma: saremo un ramo da tagliar via?».
«Che vuoi che io ne sappia, figlio mio?».
Però, siccome egli era in orgasmo, la mamma alla fine lo rassicurò: «Vedrai che Gesù dirà di sì per bocca del suo vescovo».
Madre e figlio, approfondendo la coscienza della Chiesa, avevano assimilato la grande verità che dove è il Vescovo ivi è la Chiesa; e provavano per il pastore di Lucca una riverenza unica.
E difatti un giorno, coi compagni, Eolo andò dal Vescovo. Ne tornò raggiante: Gesù, per bocca di lui, aveva detto sì.
La mamma ricorda con commozione la bellezza estatica del volto di Eolo, tanto che gli aveva detto: «Se ti avessero dato cento milioni, non saresti così contento».
«Che valgono, mamma, tutti i milioni dell’universo, di fronte a questa benedizione del Vescovo e di fronte alla gioia che ne provo?».
Più volte Eolo ebbe a ricordare la benedizione del suo Vescovo, dal quale era stato accolto con tanta benevolenza: così come più volte ebbe a ricordare la benedizione del Cardinal Lercaro, arcivescovo di Bologna, da cui dopo un incontro aveva anche ricevuto un paio di lettere. Dal colloquio con Eolo, – dalla sola vista dei suoi occhi bagnati di cielo, – ciascuno si ritraeva edificato: fatto migliore; come per un contatto con l’al di là: ché in Eolo viveva, in terra, l’Eterno.
Una testimonianza
Narra un suo amico (venuto attraverso l’appello dell’Incom), Italo Alighiero Chiusano:
«Nel l954, pochi giorni prima di Pasqua, mi recai a Lucca e feci la diretta conoscenza di questo incomparabile amico. Tutti coloro che hanno conosciuto Eolo mi capiranno se dico che da quella volta il tornare periodicamente al suo capezzale divenne per me una vera e propria necessità. Così, ogni anno, fino all’ultimo della sua vita terrena, appena si annunciava la primavera, io facevo il mio rituale viaggio a Lucca, fermandomi una decina di giorni in quella cara città, dove potevo passare mattinate e pomeriggi interi a ricevere forza e saggezza cristiane da quella cara anima sorridente, che – come assai bene è stato detto in occasione della sua morte – aveva fatto del suo letto un pulpito, e il più efficace e gioioso dei pulpiti. Vidi così, di anno in anno, un affinamento continuo di uno spirito innamorato di Dio, che man mano deponeva tutte le sue scorie, realizzando in sè i disegni della Provvidenza. L’ultimo anno, in verità, non sapevo più quale difetto trovargli. E sì che Eolo, forse per paura che lo ammirassimo, confidava a me e ad altri tutte le sue imperfezioni, senza ostentata modestia, ma per sincero amore della verità. Anche gli ingenui attaccamenti terreni dei primi anni (una certa collana di libri, la collezione di cartoline e poi di francobolli). Eolo li aveva man mano abbandonati, inteso ormai solo più all’essenziale, a ciò che “la tignuola non rode e i ladri non dissotterano”, e ciò a proporzione che si facevano più frequenti, nel suo discorso e nel suo pensiero, i riferimenti ai Focolarini e a Mariapoli, tanto ch’egli faceva risalire la sua vera e propria conversione all’incontro con quell’ambiente. Si aveva l’impressione, a vederlo, di un’anima davvero felice, e n’ebbi conferma quando mi confidò che non desiderava ormai più la guarigione, perché stava bene così e temeva, conoscendo l’umana debolezza, che il trovarsi in perfette condizioni fisiche potesse indurlo sulla china del rilassamento e del peccato. E’ indubbio che soffriva, ma chi di noi se ne accorgeva? Non si aveva l’impressione che le uniche cose che lo affliggevano fossero le colpe degli uomini, i dispiaceri dei suoi amici? E quanto cercava di unirci tra noi, come ci raccomandava di far reciproca conoscenza, dandoci indirizzi e fungendo da intermediario! Anche dopo la sua morte, anzi specialmente dopo la sua morte, ho constatato che le anime che lo amavano continuano a cercarsi tra loro, per proseguire la sua opera di fraternità e di amore, per rendere testimonianza a Cristo nella società moderna. Sua madre, quando il suo corpo fu portato via (e chi ha visto quel funerale non dimenticherà mai la folla trabocchevole accorsa da tutte le parti d’Italia, pur con così breve preavviso, a rendere omaggio a quest’amico di tutti in Gesù ), sua madre, ripeto, quando vide dalla finestra della sua cameretta la bara prendere la via del cimitero, disse alla sorella di Eolo, che piangeva straziata: “Non piangere, Milvia, fa’ conto che sia andato alla Mariapoli: tornerà in settembre”. La frase mi colpì, soprattutto perché è profondamente vera: Eolo ci ha preceduti nella celestiale Mariapoli, nell’eterna Città di Maria dove si premiano le anime come la sua. Voglia il cielo che quando scoccherà la nostra ora, possiamo tutti andarlo a raggiungere per sempre».
Le lettere
L’apostolato Eolo lo faceva con l’esempio per chi gli stava vicino, con la parola per chi veniva a trovarlo, e con gli scritti per chi stava lontano. Quando ne pregava ne parlava, si metteva a scrivere lettere: e fu un epistolografo instancabile, con quella sua calligrafia, che era, come il suo pensiero, nitida e semplice.
Scrisse molte lettere (1): solo per il lancio del giornale Città Nuova, nel novembre 1957, ne scrisse una cinquantina. Una «vera valanga» di corrispondenza pioveva sul suo tavolo. Talvolta se ne spaventava.
Ma era il risultato di quel suo donarsi. Le lettere di Eolo sono documenti di vita. Valgono come espressione spontanea, sicura della sua anima: un’anima, la quale via via, dalla mediocrità quasi monellesca, era salita a una visione verginale di Dio, in cui s’era amorosamente persa, come bambino che, dopo percosse e delusioni, s’abbandona tra le braccia della madre.
E difatti, Eolo andava al Padre celeste affidandosi alla Madre celeste, che amava con una tenerezza ingenua. Infine l’attrazione particolare della Mariapoli su di lui consisteva in quel suo essere e vivere da città di Maria, per cui i «Mariapoliti» volevano diventare nulla più che acies ordinata a servizio della Madonna: quasi mistica rappresentanza di Lei nel mondo. E questo comportava purezza e nascondimento, nell’umiltà del sentire e del servire· e alimentava quella unità delle anime, nella quale si tornava, in qualche misura, a rivivere il «cuore solo e l’anima sola» del Cenacolo, attorno a Maria.
Ci sono dei motivi che ricorrono più frequenti nella sua corrispondenza: i motivi fondamentali della sua spiritualità, la quale gli viene dai Focolari.
E uno – il basilare – è appunto quello di Gesù abbandonato. Esso aveva colpito un dottore della Chiesa: san Giovanni della Croce, e anche una scrittrice ebrea Simone Weil, la quale aveva visto la divinità del cristianesimo proprio in quel grido di Gesù al Padre, dalla croce, sulla massa del gregge urlante agli ordini dei padroni: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»
Eolo, più di ogni altro, era in grado di capire l’angoscia sterminata di quell’invocazione, rivolta al Padre da un Figlio venuto per la gloria di Lui. Anche lui, Eolo, aveva passato, e passava, ore di abbandono – di solitudine – in fondo alla febbre e agli strappi delle carni, nell’ombra della sua stanza, quando gli pareva di essere dimenticato da Dio e dagli uomini. Capiva quindi lo strazio di quell’appello, urlato tra cielo e terra, tra vita e morte, dal Signore – di là dalle nubi fosche sopra il capo della povera Madre, immobilizzata dallo strazio ai piedi del patibolo.
«Il nostro appuntamento – scriveva il focolarino paralitico ai fratelli che viaggiavano lontani, – il nostro appuntamento di sempre è presso Lui, nell’abbandono come nelle gioie. E non potrebbe essere altrimenti avendoLo scelto come nostro tutto!”.
‘Dio solo: mio Dio e mio tutto!…
Gesù abbandonato
E chi ciò scriveva non era un teologo, non era un religioso, né un prete: era un operaio invalido: soldato di punta, sulle posizioni di maggiore responsabilità, dove rappresentava quel laicato cattolico che – lo vedeva dai confratelli – stava riassu- mendo in pieno la coscienza dei propri obblighi nei ranghi della Chiesa militante. Militante e confessante. Nel suo soffrire, Eolo confessava Cristo in faccia al mondo.
Insomma, egli aveva issato in Gesù crocifisso il suo ideale: la mèta. In Lui capiva il perché della sua disgrazia e la risolveva in grazia. Avendo appreso così ad amare la croce, comunicò la sua fiamma ai suoi fratelli, dal letto, che era il suo patibolo quotidiano. Fu in questo, in faccia al mondo, un confessore di Cristo crocifisso. «E’ la nostra vocazione essere soprattutto simili a Gesù crocifisso, perché solo in croce si portano frutti… L’amore ha un solo limite: morte in croce, ed è come dire che non ha limiti. E dunque, mettiamoci in croce, se Gesù vuole… ».
Alla luce d’un ideale così fiero e diritto, quasi croce di sangue levata sul mondo, si capisce la discrezione, se non proprio il silenzio, di cui velò sempre le sue sofferenze fisiche. Citava, per questo, molto spesso quel brano così diffuso e meditato dei Focolarini:
«Ho un solo Sposo sulla terra: Gesù Abbandonato; non ho altro Dio fuori di Lui. In Lui è tutto il Paradiso con la Trinità e tutta la terra coll’umanità.
«Perciò il Suo è mio e null’altro.
«E Suo è il dolore universale e quindi mio.
«Andrò pel mondo cercandoLo in ogni attimo della mia vita.
«Ciò che mi fa male è mio. Mio il dolore che mi sfiora nel presente. Mio il dolore delle anime accanto (è quello di Gesù). Mio tutto ciò che non è pace, gaudio, bello, amabile, sereno… in una parola: ciò che non è Paradiso. Poiché anch’io ho il mio Paradiso, ma è quello nel Cuore dello Sposo mio; non ne conosco altri.
«Così per gli anni che mi rimangono;
assetata di dolori, di angosce, di disperazioni, di malinconie, di distacchi, di esilio di abbandoni, di strazi, di… tutto ciò che è Lui e Lui è il Dolore.
«Così prosciugherò l’acqua della tribolazione in molti cuori vicini e, per la comunione conlo sposo mio onnipotente, lontani.
«Passerò come fuoco che consuma ciò che ha da cadere e lascia in piedi solo la verità.
«Ma occorre essere come Lui, essere Lui nel momento presente della vita».
E l’anima di Eolo era come quella d’una sposa casta, che i doni – i doni del soffrire – non ostenta agli occhi di estranei, avendoli destinati – come perle di lacrime e di sangue – al solo Sposo celeste.
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