L’attività apostolica
Tornato a casa, a S. Maria a Colle, i nuovi fratelli lo avvilupparono più che mai del loro affetto; e frequentemente venivano a prelevarlo, per condurlo, su un’auto, a qualche raduno. Lo menarono a Firenze, poi lo menarono a Trento, alla culla di quella che ormai era divenuta la sua famiglia: a vedere piazza dei Cappuccini, dove s’era aperto, sotto le bombe, il primo focolare; e poi, sul colle, a casetta Foco, donde erano partite le prime diramazioni; e poi a Fiera di Primiero, dove l’estate, in numero sempre più folto, da tutta Italia e anche d’Oltre Alpe e d’Oltre Mare, affluivano anime, avide di comunione, per cementare l’unità, desiderio culminante di Gesù.
Ormai fu questa la sua vita.
Tornando da Trento, la prima volta, per prima cosa arse, in un falò, tutte le lettere, a cui era vincolato. Fu un atto di liberazione, appreso a casetta Foco, dove gli avevano insegnato che solo Dio conta: Dio solo. E alla mamma che, sorpresa, gli domandava: «Perché hai fatto questo?», rispose: «Mamma, ho capito che non servono per arrivare a Gesù: inutile quindi custodirle».
Dio solo. Cresceva nell’amore per Iddio e quindi nell’amore per il prossimo. Per questo si trasformò, in quanto le forze glielo consentivano e sino all’estremo delle forze, in servitore dei fratelli. Prese ad aiutare, a fare elemosine, a dare amore. Divenne un apostolo che non finiva di annunziare e far amare Gesù. Un giorno chiese alla mamma 500 lire da inviare a un carcerato di Brescia. Si sentiva collegato con tutti, d’ogni luogo. Non più distanziato e isolato; ma, quale vedetta, messo in un posto particolare, su un picco eminente, – sulla croce, che era l’osservatorio più alto; – e da lassù compiva il suo dovere, in servizio della Chiesa militante.
La solitudine era finita: subissata. E con la solitudine era finita la tristezza; non viveva più per sé, ma per il Signore e per i fratelli, quindi non aveva né tempo, né voglia di ripiegarsi su sé stesso.
La sua camera divenne una mèta di pellegrinaggio, a cui approdava gente d’ogni parte: ed era Eolo a far da perno in quei raduni, a parlare a quei convenuti, a leggere brani da Città Nuova, a insegnar canzoni, a intonar preghiere. Soprattutto i bambini – i piccolissimi – cantavano a squarciagola gl’inni della Mariapoli: e talune delle loro cantate «mariapolitiche» egli fece incidere al magnetofono, godendo senza fine a riascoltarle e a farle riascoltare. Così, invalido, ghermito a metà dalla morte, stette come un donatore di vita. Tanta gente, vedendolo, capì la religione: molti credettero perché videro come egli e i suoi si amassero.
Era malato; e, con perizia, con semplicità, con le risorse della salute divina, risanava coscienze, risuscitava la speranza, ricomponeva famiglie…
In Mariapoli
E le risorse crescevano e si rinnovavano in Mariapoli.
L’estate, infatti, Eolo andava alla Mariapoli, e cioè nelle cittaduzze dolomitiche, dove, tra torrenti e rocce, sotto boschi di conifere, al riparo di campanili gotici, la famiglia spirituale raccolta attorno ai Focolari, piccola immagine della Chiesa – e c’erano vescovi e sacerdoti e religiosi e suore e laici consacrati e famiglie a non finire, – si consociava l’estate adunando e unificando creature d’ogni condizione sociale e di ogni paese, per farle tutte uno, secondo il testamento del Signore, con la tecnica umano-divina insegnata da Lui:
«Dove due o più si uniscono nel mio nome, io sono in mezzo a loro».
Ed Eolo sentiva il Signore in mezzo a loro, sia la mattina e la sera nella chiesa, sontuosa come basilica, di Fiera di Primiero, sia lungo tutto il giorno, nei convegni, alle conferenze, ai trattenimenti, agli spettacoli, alle passeggiate: perché sempre e dapertutto ognuna di quelle creature, incontrando un fratello o una sorella, si metteva di fronte a lui o a lei come di fronte a Gesù.
Così assorbito in Dio, quando gli fu offerta la possibilità di ricevere un televisore, che avrebbe riempito la stanzetta di luci e di suoni, titubò. E disse il perché: il perché d’una potenza unica: «Io lo temo. Ho paura della mediocrità … “. Nella fede e nella carità aveva trovato gli slanci dei mistici, con cui scalava vette e superava abissi: aveva intrapreso una carriera di elezione, dove anelava a farsi simile a Dio e a unirsi a Dio. Ora paventava d’essere ritrascinato nella piatta mediocrità, carica di noia ne di delusione, fatta di piaceri terreni, tessuti banalità … Aveva ormai scelto Dio, per darGli gloria, «e questo è possibile solo facendo il bene», come scriveva al dottor Zirondoli, ormai fratello. Non aveva quindi tempo da perdere: tempo e forse eternità da perdere…
L’estate nella Mariapoli era per lui un bagno di gioia: tra le Dolomiti e i Focolari, nell’amore dei fratelli, visse ore di unione con Dio, delle quali non finiva di parlare. Con loro venne a trovarsi nel ciclo d’una attività, che investiva ormai i continenti.
«Eravamo veramente, – scrisse nel settembre 1957 al suo fido amico salesiano, Gaetano M. Ventura, – come una famiglia sola e c’era fra noi un amore grande che ci univa e ci avvicinava a Dio. E lassù il comandamento di Gesù: “Amatevi come io vi ho amato” era veramente una realtà. Credi, Gaetano, che ne sono tornato trasformato nell’anima … ».
Durante la Mariapoli di quell’anno, un cappuccino di Fiera di Primiero, chiamato a recare la comunione a una malata, entrato nella chiesa arcipretale, nell’ora della Messa dei Focolarini, incontrò, tra la folla, gli occhi di Eolo: e ne fu colpito. Subito dopo entrò un signore, a cui capitò la stessa cosa. L’effetto fu che quel signore si rivolse al cappuccino perché lo confessasse. E dopo trentacinque anni tornò ai sacra menti. La vista di quella giovinezza, offerta come vittima dal suo altare di dolore, gli aveva spalancato la realtà della vita, mostrando di colpo la differenza tra la frivolità di lui sano e la profondità dell’anima di quell’invalido.
Già il secondo anno che era tornato dalla Mariapoli, alla mamma era parso di ricevere un santo in casa: un figlio perfetto per amore, obbedienza, premura. Di tutto chiedeva il permesso, valorizzando ogni gesto e ogni detto di lei.
Allora Eolo era riuscito a farsi portare Gesù eucaristico, ogni mattina: e lo riceveva con tale pietà, tale trasporto, che – come ricordano i familiari – anche un ateo, al solo vederlo, si sarebbe convertito. Pregava di continuo; e a sera invitava la mamma a recitare insieme il rosario: ed erano, per la povera donna, le ore più belle, – belle per il fervore della preghiera, la luminosità dei discorsi che le faceva, la pace che le restituiva sempre. Alla f ine indusse anche il babbo ad unirsi nella preghiera a Maria, il babbo che via via veniva scoprendo la religione, lui che non andava in chiesa: e scoprendo la religione, capiva l’orrore della bestemmia sulla bocca dei compagni, sì che finì col condannarla con forza. Del pari la sorellina Milvia sempre più si avvicinava all’ideale del fratello. Suscitava tra i suoi familiari e conoscenti una così profonda unità che alla mamma egli finiva col non parere più un figlio suo, ma l’immagine viva del Signore; tanta sapienza le veniva da lui, tanta gioia nelle pene quotidiane. Eolo divenne la sua guida, il suo sostegno, – lui, immobilizzato su quel povero giaciglio; – un suscitatore di vita, – lui diretto verso la morte. Tutti intendevano questo fatto: che la religione vissuta aveva dato a Eolo «una vita più abbondante»: come di uno, che, essendo in terra, partecipava della vita di Dio, in cielo.
Il Focolare
La scoperta del Focolare, dunque, avendolo inserito nella comunione di numerose anime, lo aveva fatto vivere più consapevolmente e costantemente con la Chiesa e della Chiesa. Quando lo portavano, ·qualche giorno, in Focolare a Firenze, si sentiva felice di vivere la vita del focolarino, poiché era e si sentiva ormai tale, felice di esserlo. Dimenticava allora sé e il mondo e viveva in una sorta di incantamento paradisiaco.
«Scommetto, – gli diceva la mamma, – che se ti lasciassero sempre a vivere in Focolare, ti dimenticheresti anche della tua famiglia».
E lui rispondeva:
«Là si vive la vita degli apostoli: ci resterei anche cibandomi di solo pane e acqua».
Le ore che passava in Focolare le chiamava «anticipi di paradiso». Le idee, fruttate dall’incontro coi Focolarini, gli parevano di un valore senza pari: gli parevano fiorite dal Signore presente in mezzo a loro. Per recarsi più spesso a Firenze, vagheggiò il disegno di procurarsi un’auto: non ci riuscì, e ne patì, e ci pianse, pur se offerse al Signore anche questa rinunzia. In compenso trasferì l’aura del Focolare nel suo stambugio, dove cercò di accendere una comunanza di focolare con la mamma e la sorella Milvia, entrambe assai sensibili a quella spiritualità, che aveva trasfigurato il loro figlio e fratello. E, giorno per giorno, partecipò, col cuore, coi discorsi, con corse improvvise, alla vita del Focolare. Una volta che i Focolarini in formazione erano stati convocati a Roma, egli pagò le spese di viaggio per alcuni, vendendo la propria collezione di francobolli, che gli fruttò 28.000 lire. Lui non poteva andare: andarono gli altri. Si sentiva in qualche modo come la radice d’un albero, la quale sta nascosta, sottoterra, per alimentare i rami. E fu lieto quando quelli, di ritorno, vennero a narrargli dell’incontro fatto e gli fecero ascoltare una bobina incisa con le canzoni nuove.
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