La storia di Eolo Giovannelli scritta da Maras 6a e ultima parte

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Il senso della Chiesa

Maras

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Accanto all’ideale del dolore, impressio­nante il senso della Chiesa, della Gerarchia: un sentimento che si concludeva nella co­scienza di servire. La sua anima poteva dire, a imitazione di Maria: «Ecce ancilla Do­mini». E in tale atteggiamento stava di­nanzi al suo Vescovo, dinanzi   al Papa, dinanzi al clero, dinanzi alla Chiesa tutta.

Per lui la Chiesa era l’amore incarnato e quotidianamente crocifisso.

Eolo infatti fu uno che credette all’amore. E questo divenne altro motivo del suo messaggio epistolare: l’amore che, – come insegnava la creatura da cui aveva tratto inizio quella famiglia vasta di anime, – «nulla chiede e tutto dà»: perché «quello che conta nell’amore è amare».

Lui, impotente, non tanto riceveva, quan­to dava.

Frutto dell’amore è l’unità: ed Eolo gode quando vede realizzarsi tra i fratelli l’unità: chè allora sorge in mezzo a loro Gesù. Ed Eolo lo sente, e ne gioisce.  Ogni volta che può gittare la sua persona nel ciclo della fraternità, che è una comunione di grazie divine tra persone umane, egli ripor­ta una forza nuova: la forza di Dio ri­trovato.

Imitando i grandi santi – come Vincenzo de’ Paoli, – Eolo intende il beneficio enorme del ritrovarsi in Dio, del comuni­care comunicandosi l’amore divino: la gioia dell’amore scambievole. «Certo, che cosa stupenda il ritrovarsi! Ti riempie l’anima subito di gioia! E’ come incontrare Gesù».

E sentiva la “necessità» d’incontrarsi coi fratelli, per mettere in mezzo Gesù.

La carità diveniva prestazione anche di denaro. Collegato coi suoi di Lucca, attua­va il precetto di dare il superfluo ai poveri, Tutti mettevano nel deposito comune della carità quanto avevano di superfluo, in de­naro, viveri, indumenti, tempo e prestazio­ni varie, e tutti, in caso di bisogno, attin­gevano: uno serviva l’altro e la comunità così composta serviva la Chiesa, i fratelli, dovunque se ne conoscessero le necessità. Eolo metteva in comune il dolore, la parola, la preghiera, e, quando potè, anche quei pochi spiccioli arrivatigli in dono.

Infine, per sostenere questi motivi di donazione a Dio e al prossimo, egli coltivò, in sè, e in tutti, un’acquiescenza pronta, ilare, costante alla volontà di Dio, accettata momento per momento. Spesso le cose andavano diversamente da come egli le aveva desiderate. E allora non si lamentava: ratto, si acconciava alla nuova realtà, nella quale cercava Dio, sentendo che Dio si poteva, e doveva, amare e servire in ogni congiuntura.

E questa ginnastica, che stava nello spo­stare di continuo l’anima verso obiettivi diversi, gli dava piena libertà e gli pro­duceva una purificazione, in mezzo a ritorni inevitabili di antiche voglie e compiacenze e debolezze: i ritorni di fiamma dell’uomo vecchio.

Il ritorno a casa

Se capitava, in certi periodi, che il par­roco, suo amico generoso, – don Chicca, – non potesse portargli ogni giorno il sacra­mento, Eolo ne pativa: allora si faceva di nuovo triste. Triste di un’altra tristezza: quella dell’esule che anela alla patria, quella dell’affamato che brama un pane. Spesso ne piangeva: Gesù era la sua nutri­zione. L’assenza di Gesù gli pesava come la fame, come la morte.

«Perché piangi tanto?» – gli chiese un giorno la madre.

«Tu, mamma, non lo sai: ma io, quando non ricevo Gesù, considero la giornata co­me finita: una giornata senza sole; e sono triste, così come sono felice quando invece faccio la santa comunione: il più felice del mondo».

Almeno la domenica egli voleva cibarsi dell’alimento eucaristico: e metteva in moto quanti gli capitavano per assicurarselo.

«Ma quante persone disturbi!» – gli osservava mamma Italia, che era felice in cuor suo.

«Se lo facessi per me, mamma, ci penserei anch’io: ma per Gesù rivoluzionerei il mondo, pur di trovare chi mi porta la comunione».

Aveva fame di Dio: e Dio volle soddisfare quella fame, radicalmente, accelerando il suo ritorno a casa.

L’ultimo anno, il 1958, ci furono a pri­mavera le elezioni politiche. Lo turbarono un po’ perché rendevano più difficile, certe settimane, la comunione quotidiana: per il resto, egli compì i suoi doveri di cittadino con la serietà, che era frutto della stessa carità, come un servizio al bene comune. Il 6 maggio si era portato al santuario di Loreto: e vi rimase quattro giorni. La per­manenza nella casa di Maria, dove era sbocciato, anni prima, il primo virgulto del Focolare, fu per lui come il soggiorno nella casa materna: godette d’una gioia filiale, riposata, partecipe della beatitudine celeste. In quei quattro giorni parlò a quanti potè della bellezza dell’unione con Dio mediante l’unione coi fratelli, come gli era stato inse­gnato, più con la vita che con la parola, dai fratelli d’ideale. Diceva loro che si poteva menare una vita di perfezione, pur stando nel mondo, pur non indossando abiti reli­giosi, pur non vivendo in comunità: e si sentiva fiero di essere un’anima consacrata, pur restando un minorato nel fisico. La gioia provata a Loreto era quella stes­sa provata a Lourdes, dove si era recato per quattro volte: e ogni volta era tornato più contento e aveva spiegato ai suoi che lassù, nella città di Maria, gli infermi non pensano tanto al miracolo per sè, quanto alla pre­ghiera per gli altri, per quelli che stanno peggio. Peggio di Eolo, incatenato a una paralisi senza scampo.

Don Picchi, parroco di San Macario, nei primi tempi della sua infermità, era andato a trovarlo un paio di volte, per portargli un po’ di gioia, ma Eolo lo aveva accolto con freddezza, stando sempre zitto; e allora il prete pensò di non essere gradito e non vi tornò più fino alla primavera del 1958. Era il giorno di Pentecoste e, alle undici e mezzo della mattina, il parroco incontrò la mamma di Eolo: «La prego, venga a portare la comunione a mio figlio, non sop­porta di passare la Pentecoste senza Gesù». Il parroco andò e trovò Eolo tanto diverso da come lo aveva conosciuto: fu accolto con tanta riconoscenza e tanta gioia e rimase profondamente commosso dalla pietà con cui ricevette Gesù. Capì che Eolo Lo amava tanto e che in lui si era sviluppata la santità.

Passò qualche tempo e il parroco fu par­tecipe di un episodio straordinario; a lui che era stato commosso dall’amore di Eolo per Gesù eucaristia, Gesù volle mostrare con quale dolcezza e profondità si esprime­va il Suo amore per Eolo.  Una sera un giovane, Giuliano Buchignani, andò da Don Picchi; era tardi, c’era anche un frate di un convento della zona. Giuliano raccontò che era stato da Eolo e l’aveva trovato con un forte mal di testa; gli aveva detto che desiderava avere la comunione.  L’ora era tarda e non si può portare la comunione altro che in punto di morte; e poi Don Picchi non avrebbe potuto, perché aveva un impegno urgente. Però Giuliano insiste­va e alla fine decisero che, date le condi­zioni di grave malattia in cui Eolo si tro­vava, gli avrebbe portato la comunione come viatico. C’era il frate che la Provvi­denza aveva inviato in quella decisiva cir­costanza e questi si offrì di portargliela. La notte stessa Eolo morì. Morì come uno che torna a casa: sereno, anelante, angelicato.

Morte di un eroe

Eolo Giovannelli

Eolo Giovannelli

Sul lettino, dove aveva tanto tempo patito, ora giacque placato, con negli occhi un sorriso profondo, come d’uno che ha visto la vita: uno che ha incontrato l’Amore. Amici affluirono d’ogni parte e le ono­ranze funebri, pur tra la commozione del popolo, tra cui s’era diffusa la fama della bontà di Eolo, presero il colorito d’una marcia nuziale. Si piangeva, ma si era in festa: Eolo, dicevano, non può trovarsi che in Paradiso.

Quando la notizia della morte si diffuse, sul settimanale lncom, tra le notizie del Musichiere e di amenità cinematografiche, uscì una lettera sotto il titolo: «Morte di un eroe». Essa diceva:

«Come lei certo saprà, il 16 scorso è morto Eolo Giovannelli, il giovane paralizza­to di Santa Maria a Colle che tanto doveva alla sua amicizia. Le scrivo per due ra­gioni: innanzi tutto, per ringraziarla di aver conosciuto, tramite questa rubrica, il caro Eolo una delle anime più belle, e forse la più bella, da me incontrate. E poi per­ché dobbiamo star tutti di buon animo, se lo spirito, se il bene, sono ancora due forze nel mondo.

«Alla sepoltura di questo ragazzo che non aveva lustro di titoli nè d’imprese sono accorse centinaia di persone da tutta Italia e altre ne sarebbero accorse anche dall’este­ro, se ci fosse stato il tempo di farlo, for­mando il corteo degno di un ministro, ma senza le curiosità e gli esibizionismi che rendono così affollate le sepolture dei per­sonaggi ufficiali. Chi era morto? Un ragazzo che aveva saputo soff rire sorridendo, che aveva saputo credere e dar coraggio agli altri. Questo ha fatto di Eolo qualcuno, questo lo renderà indimenticabile, questo forse farà sì che un giorno il suo nome; s  arà conosciuto e forse invocato da molti.

«Grazie ancora e accetti i miei più vivi ossequi.

Dott.  Italo A.  Chiusano

via Sant’Angela Merici   18, Roma».

Il giornale chiudeva così:

«Eolo Giovannelli era entrato nella no­stra cerchia molti anni or sono, con un sorriso. Il suo bellissimo viso di ragazzo coraggioso apparve su questa pagina una sola volta; ma, io lo credo e lo spero, fu un’apparizione più significativa che non quella, centomila volte ripetuta, di James Dean. La lettera che fedelmente riportai accanto al suo ritratto diceva della sua malattia inguaribile e delle sue felici gior­nate trascorse in un letto che il sole illu­minava, che la mamma ricomponeva.

Sep­pimo che si può vivere in quella che Hein­rich Heine chiamava una «tomba di materassi» senza considerarla una tomba. Seppimo che ogni ora ha la sua qualità, scandita da un orologio, distinta dal mu­tare della luce, rallegrata dalla visita di un compagno, nobilitata   dalla preghiera. «Molti scrissero di Eolo, immaginando di aiutarlo; e sono certa che Luisa Theo­doli, o Fritz Metzger mi perdoneranno, se pubblico i loro nomi: mandavano ad Eolo giornali, libri, francobolli, e ne ricevevano in cambio la certezza della solidarietà, il calore dell’ottimismo. Perché Eolo ridi­stribuiva quei francobolli, quei libri, quei giornali ad altri che gli avevano scritto per chiedere aiuto a lui.

«Durante un certo periodo, quando la legge sugli illegittimi sembrava ancora re­mota, io tenni qui una “Banca dei padri”. Ci furono molti uomini che offrirono, senza chieder compenso alcuno, il loro nome onorato a dei figli di ignoti. Io non pubblicai quei nomi o, almeno, pubblicai solo i pri­mi: mi pareva che la discrezione fosse indispensabile, ed ho bruciato, appena pos­sibile, i documenti che riguardavano la “Banca dei padri”. Ricorderò soltanto con quanta prontezza e quanta intelligenza Eolo si interessasse al progetto, quanto gli pia­cesse il pensiero di avere una immensa, una remota, una redenta famiglia.

«Mi scriveva da Lourdes, ad ogni suo viaggio. Sceglieva cartoline intelligenti, con i paesaggi ben inquadrati ed il Santuario colto nei suoi momenti migliori.  Sapevo che non si trattava di un semplice ricordo, ma di un messaggio molto più grave, rac­chiuso nelle poche parole: “Sono qui, sto bene, auguri”.

Era come se volesse rassi­curarmi su se stesso – e su me. Non do­vevo crucciarmi per lui: c’era riuscito ancora una volta, aveva superato le diffi­coltà del viaggio, tutto andava benissimo, le infermiere erano vere amiche, i bran­cardiers simpatici, il tempo perfetto. E non dovevo crucciarmi per me, per l’amarezza, per l’aridità, per gli anni, per la vita. Senza sentire la necessità di dirlo, Eolo aveva, lo so, pregato anche per me. E so anche che, oggi, Eolo non è uscito dalla nostra pa­gina».

Anche noi diciamo: Eolo non è uscito dalla nostra pagina. Non è uscito dalla nostra comunità, e non ha cessato di svolgere un apostolato di vita. Defunctus adhuc lo­quitur.

Ci basta ripeterne il nome, per ripetere una lezione.

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About Luca Tamburelli

Sposato e padre di fue figli, vivo in Francia, a Annonay, presso Lione. Sono amico di Maras e di moltissimi suoi amici.