In prima linea fino alla fine
Fine luglio ’71: a Merano si svolge l’incontro estivo del Movimento dei Focolari, la Mariapoli, un’esperienza di alcuni giorni. Paolo vuole parteciparvi perché sa che lì è possibile fare una profonda esperienza. Fino all’ultimo momento i familiari sono indecisi. Vale la pena rischiare? Per Paolo non ci sono dubbi: ne vale la pena, eccome. Era sempre stato in prima linea e non poteva tirarsi indietro proprio ora. Tutte le perplessità e le ansie sfumano di fronte ai referti dell’ultima analisi: inaspettatamente le piastrine erano salite a 40.000 mentre, da qualche mese, raggiungevano le 7/10.000. Quando Paolo vide i referti si illuminò. Sembrava ci fosse una profonda intesa tra quegli esiti e i suoi desideri. Così partì fra la gioia di tutti.
In Mariapoli chiesero a Paolo di raccontare a tutta la sala qualcosa della sua vita. Con voce calma raccontò della sua malattia e della sua delicata situazione. Chi lo ha ascoltato, quel giorno, non ha potuto fare a meno di dar gioia a quel Dio che Paolo aveva scelto e che, ora, stava per prenderselo. Non è difficile immaginarselo mentre parla al microfono: un viso sorridente e disteso ma che lascia trasparire un passato di sofferenze; due occhi intelligenti che sanno guardare in faccia la realtà; una voce ferma e calda che fa luce sul dolore…
Riportiamo qui ciò che disse quel giorno:
“Avete già sentito che mi chiamo Paolo. Sono un Gen di Trento. Sono qui per raccontarvi l’esperienza che ho vissuto da quando sono ammalato. Praticamente da quattro anni, da quando cioè con un semplice mal di gola, sono entrato in ospedale; ed ho scoperto che una strana malattia mi aveva preso. Quando sono stato ricoverato, ero praticamente impossibilitato a muovermi. La situazione era tesa; ma, nonostante questo, riuscivo a sorridere alle persone che venivano a trovarmi, in modo da poter aiutar loro e non far pesare troppo questa mia malattia. Da allora ho sempre cercato di far così: essere sempre sorridente verso il prossimo, in modo da aiutare tutti.
La situazione attuale è un po’ preoccupante… voglio dire che, se una persona normale ha dalle duecento alle duecentocinquantamila piastrine, io ne ho soltanto dalle dieci alle quarantamila, quando va bene. Il che significa… e siccome queste piastrine servono a coagulare il sangue, la situazione è abbastanza seria. A scuola devo stare attento, perché se mi prendo una botta, potrei finire in ospedale; potrebbe venirmi un’emorragia da un momento all’altro. Nonostante questo cerco di stare sempre allegro.
Ma quello che voglio raccontare, è l’esperienza che ho vissuto l’ultima volta, che sono stata ricoverato in ospedale: è stato in marzo. Andavo a scuola, tranquillamente come sempre; e, improvvisamente, da un giorno all’altro, mi hanno dovuto ricoverare a Modena. Ho trovato un ambiente un po’ strano, diverso dal solito. Mi trovavo con un ragazzo piuttosto difficile, che prendeva in giro tutti: vecchi e giovani, e la situazione un po’ mi scocciava. Dicevo: “Chi crederà di essere costui?” Nei primi giorni, puntualmente, quando mi diceva qualcosa, subito lo imbeccavo, come per dirgli:” Fai silenzio, tu non hai diritto di fare così, di prendere in giro il tuo prossimo”, così c’era un po’ di attrito fra noi. Ma poi ho capito che non è così che si deve fare. Siamo lì e dobbiamo aiutarci a vicenda. Allora ho provato ad amarlo, più che potevo, fino in fondo. Gli dicevo sempre: “Si, hai ragione”. Mi prendeva magari qualcosa, e io gli dicevo: Si, si, prendila pure”, ho visto che facendo così, era molto meglio, perché quando andavamo a riposare il pomeriggio, verso le due, lui prima faceva finta di dormire, poi si girava e mi faceva le sue confidenze. Mi raccontava quello che faceva quando era fuori dell’ospedale, come per dire: guarda che sono anch’io qualcuno. Anche se poi …ritornava ad essere quello di prima.
Il dolore ha un certo valore; soffrire serve a qualcosa. L’ho scoperto anche grazie ad una signora, che veniva trovarmi spesso da Carpi; ed ho avuto la piena conferma. (Questa signora, ora si può dire, era Albertina, mamma di Maras, “Serva di Dio” col processo di beatificazione in corso). Un giorno viene e mi chiede: “Senti, Paolo, tu mi devi aiutare, perché voglio portare a Loppiano delle persone che non conoscono assolutamente Dio. Vorrei portarle laggiù, così vedo se riesco a fare qualcosa per loro, con la scusa di fare una gita in montagna. Cerca di aiutarmi”. Allora io le dico: “Certo, cerco di offrirti tutto quello che posso”. Il giorno dopo mi dissero: “Questo pomeriggio (era di domenica) farai una trasfusione”. Io tutto contento dico: “Bene, arriva proprio a pennello, la offro per quella signora, perché vada tutto bene”. Arriva il pomeriggio. Mi portano la trasfusione. Come sempre la mettono. Poi il dottore se ne va. Stranamente, perché non m’era mai capitato da tre anni in qua, mi esce l’ago dalla vena; mi si gonfia il braccio. Un dolore terribile. Quasi mi arrabbio. Poi mi è tornata alla mente quella signora. Allora ho detto: “Sono quasi contento che sia venuto questo nuovo dolore, lo offrirò al Signore, tutto per lei”.
Felice e contento chiamo il dottore. Arriva come sempre in ritardo, perché quando si cercano non ci sono mai. Arriva e dice: “Ma si, togliamolo”. Toglie l’ago e lo rimette un po’ sopra. Poi guarda e vedendo che scorre, va via”. Tre minuti dopo, non so perché, il sangue si ferma, non esce più. Chiamo di nuovo il dottore: col braccio non ce la faccio più, nemmeno a muoverlo. Ma per fortuna c’è sempre quella signora, che mi ritorna alla mente e ciò mi aiuta a sopportare questa nuova croce. Il dottore viene, guarda: cos’è, cosa non è, vede che non c’è proprio niente da fare. Toglie l’ago e dice: “Qui ci vuole un ago più grosso, perché questo è troppo fine e non esce il sangue”. Allora l’infermiera corre subito, ne prende uno più grosso, probabilmente senza punta, perché a farlo entrare, sembrava dovesse scavare non so cosa. Mi mette questo ago. Uh, che male! Potete immaginarvelo: l’ago era grosso, perciò il sangue veniva giù benissimo e in vena. Allora mi metto tranquillo. Cinque minuti dopo, di nuovo un male pazzesco. Una cosa che non riuscivo a capire. A momenti era una cosa insopportabile. Era già tre volte che mi mettevano dentro e fuori questi aghi. Potete immaginare voi… due braccia fuori uso. Chiamo di nuovo il dottore. Aspetto, non viene mai. A momenti mi arrabbiavo… poi c’era sempre questa signora che mi faceva star calmo. Allora mi son detto: “Vedrai che questa volta serve a qualcosa. Per niente non l’avrà permesso Gesù”. Finalmente arriva il dottore. Toglie l’ago e lo rimette. Stavolta va bene. Poi mi dico, adesso vediamo se è vero che serve a qualcosa soffrire.
L’indomani arriva la signora. Era tanto allegra e mi dice: “Si li ho portati lassù”. Appena arrivati dicevano: “Ma cosa è questa roba”. Tutta la gente veniva incontro a loro. Avevano paura che li volessero convertire e quasi si arrabbiavano. Volevano tornarsene a casa. Ma ormai lei se ne era andata. E così sono dovuti restare lì. Poi nel pomeriggio è andata a prenderli e non volevano più venire via. Dicevano che era bellissimo. Non sapevano che cosa era successo e dissero che volevano tornarci ancora. Quindi ho capito che è veramente servito a qualcosa regalare questo dolore. E poi ho scoperto una cosa importante: che una persona che soffre è molto facilitata ad avere un rapporto più profondo con Gesù.
Una sera tardi entrava appena una debole luce nella porta e così improvvisamente dicevo a me stesso: “Ma perché non posso essere a scuola come sempre? Erano i primi giorni ed ero di nuovo dentro all’ospedale. Perché devo finire così spesso all’ospedale? Era già la seconda volta quest’anno e altre volte ero stato ricoverato. Accidenti! Non possono farmi finire l’anno scolastico?”. Mi giro e vedo il crocifisso che c’era nella stanza dell’ospedale, illuminato da una luce stranissima; un’immagine molto suggestiva. Mi ha colpito molto vedere questo crocifisso e di nuovo mi son detto: “Io mi lamento, e Lui che ha sofferto così tanto con quei chiodi… Non posso neanche dir niente per quei buchi che mi fanno… Paolo stai buono e non pensarci!”.
Quando poi sono tornato a casa, mi sono accorto che quella croce mi mancava, perché ero tranquillamente nel mio letto. Una sera pregavo. Poi mi sono girato. Cercavo qualche cosa, non so. Guardavo se c’era quella croce, che di solito c’era in ospedale. Ho capito che qualcosa mancava, dovevo ritrovare qualcosa: era questo rapporto profondo che ero riuscito a stabilire nel dolore. Era Gesù che si era avvicinato di più a me nel dolore”.
A questo punto Paolo concludeva con un’altra sua canzone:
CAMMINANDO PER LA STRADA
Un giorno, camminando per la strada
una domanda venne a turbare
la pace che avevo nel cuore
e la mia vita divenne un dolore.
Io mi domandai
perché tu non sei
non sei qui con noi
che c’è bisogno di Te.
Tanto odio c’è
e miseria che
sta cambiando ormai
la vita di ognuno di noi.
Allora mi sono messo a pregare
e ad avere fiducia nel tuo amore
come sempre tu non sei mancato
e la verità tu m’hai svelato.
Ho capito sai
che Tu sei tra noi
se sappiamo amar come Tu hai amato noi
E perciò cambiar, l’uomo che non sa amar
dobbiamo farlo noi, è questo ciò che Tu vuoi.
La…la…la…la…
Rip. E perciò cambiar…
Questa la sua esperienza e la sua canzone.
Tornato a casa disse alla mamma: “Sai, in Mariapoli mi hanno chiesto di raccontare qualche mia esperienza! In un primo momento non volevo perché ho pensato: – Ce ne sono tante di esperienze… per quei due buchi che mi fanno… – però poi ho detto: – Non saranno le mie parole a fare qualcosa ma Lui… – allora l’ho raccontata”.
Il commento di Franco Franceschini, focolarino di Buenos Aires :
Ho conosciuto Paolo nell’Aprile del ’71 quando è stato ricoverato al policlinico di Modena e posso testimoniare quanto è stato scritto su di lui. Assieme a due Gen e ad una Gen di Carpi, dove abitavo, abbiamo saputo che Paolo era lì e siamo stati a trovarlo per alcune volte finché è rimasto ricoverato. Lì abbiamo conosciuto anche Licia, la mamma, ed è nato un bellissimo rapporto con entrambi. Paolo era sempre sorridente ed aveva una grande serenità, con qualche momento di sospensione, o di stanchezza, ma sempre col sorriso sulle labbra.
Il rapporto con lui è continuato anche quando è tornato a casa. Poi lo abbiamo visto sul palco nell’anfiteatro di Loppiano, a quel primo incontro di giovani. Un giorno è arrivata a Carpi la notizia che Paolo era peggiorato, e poteva essere la fine. Siamo stati indecisi se partire per andare a trovarlo a Trento, ma poi non siamo andati. Così, non abbiamo potuto vederlo e poi è partito. Più tardi abbiamo saputo da Licia che egli ci aspettava…Ci è rimasto il rammarico di non averlo potuto salutare un’ultima volta.
Certamente, egli è stato come un apripista per noi Gen di quell’epoca.
Franco Franceschini, Buenos Aires
Il commento di Adolfo Giorgio, focolarino
Davvero coinvolgente e attuale il racconto di Paolo. Ancora una volta la comprensione che il dolore, seppure contrario alla realtà umana, paradossalmente diventa motivo di crescita e di autorevolezza…così come si intravvede nella vita di Paolo.