STORIA DI MARAS II – La giovinezza – L’università – Il servizio militare

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ALBERTINA e Maras giovane

ALBERTINA e Maras giovane

Autobiografia

La giovinezza

Per permettere a me di frequentare il ginnasio, evitandomi di viaggiare ogni giorno, tutta la famiglia si trasferì a Modena. Viaggiavano invece la mamma, che insegnava a Carpi, e il papà che nel frattempo aveva acquistato alcuni ettari di terra nel comune di Cavezzo e aveva cominciato a occuparsi di agricoltura, di coltivazioni intensive e di allevamenti.

L’aveva fatto anche per me, immaginando che lo studio, pur riuscendomi facilmente, non mi avrebbe preso del tutto – la mia vera passione restava la musica – e che passando almeno le vacanze estive in campagna, al contatto della natura, avrei ritrovato quell’interesse fresco e sano che avevo manifestato da ragazzo in quel paesino dell’Appennino modenese senza strade e senza macchine.

In un’età, che per un figlio unico presenta notevoli rischi, fu molto importante mettermi a lavorare allo stesso ritmo dei contadini: raccoglievo la frutta, tagliavo il fieno, estraevo barbabietole, rigovernavo gli animali. Era abbastanza duro, soprattutto per la regolarità che queste cose richiedevano, ma gli animali mi interessavano. In proprio, possedevo una trentina di colombi, una ventina di conigli, alcune cavie, un grosso cane e… due gatti. In comproprietà col contadino possedevo un cavallo che nelle ore in cui non veniva occupato nei campi, mi divertivo a cavalcare. A contatto con gli animali capii tante cose: per esempio il mistero della procreazione che fino allora nessuno mi aveva spiegato. E lo capii in modo semplice, al momento giusto, senza traumi o curiosità morbose, aiutato da mia madre alla quale chiedevo via via conferma di ciò che intuivo.

Nel periodo del ginnasio ci fu un elemento nuovo che, senza circostanze particolari, si impose fortemente alla mia attenzione: il problema del dolore. Non in maniera esistenziale, neanche però teorica; non una passione come la musica, ma neppure un semplice interesse come lo sport o le materie che studiavo a scuola.

All’inizio quasi non me ne accorsi, ma a poco a poco il desiderio di togliere il dolore  – così lo formulavo allora – si precisò nel giro di qualche mese in una decisione ben definita: da grande farò il medico.

La scuola che frequentavo e lo sviluppo fisico mi rendevano sensibile a tante sollecitazioni di cui i compagni o le compagne erano strumenti. Ma io avevo ormai una meta e sapevo che dovevo raggiungerla presto, per cui non guardavo molto attorno, concentrandomi invece su ciò che mi appariva utile.

Una sola cosa – ricordo – mi distolse da questa concentrazione. Un giorno mentre traducevo dal latino alcune frasi scelte, fui colpito dalla “qualità” di una di esse che la differenziava nettamente da tutte le altre. Interessato, ne cercai l’autore ma non era riportato. La domenica seguente, alla Messa, sentii rileggere quella frase: era un brano nel Vangelo.

Il desiderio di far presto e la difficoltà per i miei genitori di viaggiare continuamente da Modena a Carpi e a Cavezzo mi spinsero a cercar di bruciare le tappe nello studio, al punto che preparai privatamente l’ultimo anno di ginnasio mentre frequentavo regolarmente il penultimo; cosicché feci due anni in uno e superato l’esame di ammissione, mi trovai al liceo con un anno di anticipo. Il liceo c’era anche a Carpi e là ci trasferimmo di nuovo tutti.

Nonostante il notevole impegno nello studio, mi interessai in quegli anni di sport, di teatro e di tutto ciò che mi dava la possibilità di conoscere la vita nelle sue diverse manifestazioni. Come sport predilessi la scherma e l’equitazione per quel qualcosa di cavalleresco che entrambe evocavano. Mi piacque molto lo sci, soprattutto il salto dal trampolino, perché mi dava l’idea del volo – se a quel tempo ci fosse stato il volo delta avrei certamente scelto quello – e mi appassionai per la pallanuoto, per quella quasi – naturalizzazione con l’elemento liquido che essa comportava.

Di fatto però, non praticai molto – anche per motivi economici – nessuno di questi sport, ad eccezione della scherma, nella quale riuscii particolarmente bene.

Praticai invece abbastanza il teatro. Mi piaceva impersonare ruoli diversi, perché in ognuno trovavo qualcosa di vero che poteva arricchirmi. Avrei voluto “vivere l’altro” per conoscerlo pienamente ed essere “anche” lui, pur rimanendo me stesso. Questo desiderio, dapprima indistinto, che mi faceva propendere per certi sport e mi appassionava per certi personaggi, sfociò nella filosofia e cominciò a pormi dei “perché” sul problema della conoscenza e sul senso della mia vita.

Ne parlai, a scuola, con l’insegnante di filosofia che, pur essendo molto colto, non mi diede risposte soddisfacenti. Ne parlai invece col sacerdote che teneva il corso di religione e molti “perché” si chiarirono. Ripetendosi la cosa parecchie volte e non bastandomi un’ora alla settimana – quella prevista dal corso – decisi di andare a cercare questo sacerdote a casa sua.

Lo trovai nell’Oratorio che gli era stato affidato, circondato da un gran numero di ragazzi vocianti e sudati, non certo interessati – almeno apparentemente – a problemi di conoscenza, e dovetti aspettare un bel po’ prima di potermi sedere con calma nel suo studio a discutere sui miei “perché”.

Riguardavano anche l’esistenza di Dio che si presentava alla mia intelligenza come Qualcuno, e non capivo come mai i filosofi avessero su di Lui idee così poco definite.

I nostri colloqui si ripeterono spesso; ogni volta ero soddisfatto, ma non mai perfettamente convinto. Non mi accontentavo di ciò che dicevano i filosofi, ma non volevo neppure che Dio fosse unicamente oggetto di fede, anche se ragionevole, come sottolineava sempre il sacerdote. Pensavo che Dio dovesse appagare tutto l’uomo.

Il sacerdote cercò allora di prendermi da un altro verso: la squadra di calcio, lo scoutismo, l’alta montagna, la musica, la liturgia, la frequenza ai sacramenti. Alcune cose andarono, altre no. Ritirai fuori il violino, misi insieme con altri tre ragazzi un piccolo complesso ritmo-melodico, feci alcune escursioni sulle Dolomiti. Soprattutto cominciai a leggere il Vangelo e mi accostai più spesso all’Eucaristia, per cui Gesù divenne come un punto di riferimento concreto, molto più vicino di quel Dio che, con le conoscenze che ne avevo prima, appariva spesso lontano dalla vita di ogni giorno.

Albertina Zirondoli, Serva di Dio

Albertina Zirondoli, Serva di Dio

L’Università e il servizio militare

Intanto il mio programma di studi andava avanti rapidamente e a 17 anni ero già iscritto all’Università, facoltà di medicina e chirurgia.

Nel frattempo era scoppiata la guerra, molti medici erano stati richiamati e nell’ospedale di Carpi, dove avevo cominciato le esercitazioni pratiche, mi trovai a dover fare molte cose che nessuno mi aveva insegnato. Mi buttai allora sui libri, feci tesoro di ogni esperienza che infermieri sperimentati e suore ospedaliere mi raccontavano, confrontai con l’unico medico rimasto in ospedale tutto ciò di cui venivo a conoscenza, passai giornate intere al letto degli ammalati osservando attentamente il decorso delle malattie e i loro sintomi.

Quando era aperta, frequentavo l’Università, prendendo appunti di tutto.

Preparai qualche esame con una collega che stimavo molto. Mi stimava anche lei e forse qualcosa di più avrebbe potuto nascere, se quel clima di austerità e di guerra non avesse automaticamente spostato a dopo ogni problema personale.

Avvicinandosi il fronte fui chiamato alle armi. Arruolato nella polizia postelegrafonica, quasi senza rendermene conte mi trovai, con pistola e fucile, a montar la guardia a una centrale telefonica. Il mio disagio era grande; la guerra non la capivo, tutto quel sistema di violenza risvegliava in me un’avversione irriducibile già tante volte sperimentata, fin dall’episodio del somaro bastonato. Attorno a me notavo un’enorme confusione di idee, per cui egoismi e passioni sembravano giustificate come mezzo di sopravvivenza. Avrei voluto dire di no a tutto, e contemporaneamente capivo che a qualcosa bisognava pur dire sì. Ma non trovavo. E intanto eccomi lì, al freddo, solo, nel turno di guardia più duro: da mezzanotte alle quattro del mattino.

Per riempire quelle ore che sembrava non finissero mai cominciai a fumare: una sigaretta fra le dita, un po’ di caldo al viso, una piccola luce – la brace – in tutto quel buio.

Ma i pensieri ritornavano. Tutto sembrava finito: gli studi, la professione futura, la famiglia. Tutto faceva male, tutto era assurdo. Specialmente quel comando che mi avevano dato al momento della consegna: “se vedi qualcuno, spara senza preavviso!” Per qualche giorno sperai che fosse un’eventualità teorica, ma una notte, verso l’una, sentii improvvisamente un passo avvicinarsi al recinto. Tesi l’orecchio. Che fare? L’ordine era chiaro: sparare senza preavviso. Ma dentro di me tutto si ribellava. Proteggendomi allora dietro la garitta, intimai ad alta voce: “alt! chi va là?” Nessuna risposta. Passarono alcuni secondi che apparvero ore e dopo un po’ risentii i passi più vicini. Ripetei l’intimazione. Silenzio. Qualche attimo più tardi intravidi a circa cinque metri di distanza la figura di un uomo che avanzava verso di ne. Avrei dovuto sparare, ma qualcosa dentro di me lo impediva. Pensai di sparare in aria, ma dal corpo di guardia sarebbero uscite le sentinelle e avrebbero sparato loro. Tesissimo, non riuscendo più a star fermo, mi diressi verso quell’ombra: era un soldato ubriaco, uno di quelli che all’interno presidiavano la centrale telefonica! Aveva perso il senso del tempo e anche la strada. Quando mi vide col fucile puntato brontolò qualcosa che non capii e con la mano accennò a un saluto, forse un ringraziamento…

Il turno di guardia da mezzanotte alle quattro dopo una settimana fu affidato a un altro e io, dato che al corpo di guardia c’erano tanti parassiti, approfittai per andare a dormire fuori, in un appartamento che una signora, amica di famiglia, aveva lasciato a mia disposizione. L’appartamento era in periferia e c’era il coprifuoco per cui facevo un lungo tratto di strada al buio, a piedi. Avendo le carte in regola e non avendo paura del buio, mi muovevo liberamente in quei viali deserti che in quel periodo erano pieni di neve.

Una sera però qualcosa, all’improvviso, si mosse dietro alle mie spalle – forse un po’ di neve caduta da un ramo troppo carico – e io automaticamente afferrai la pistola e mi girai. Quel gesto istintivo mi fece riflettere: se si ha un’arma, prima o poi, la si usa. E le armi servono per uccidere! Decisi allora di non circolare più armato.

Naturalmente i miei superiori non furono d’accordo e minacciarono la prigione, ma io non cambiai parere e dopo un lungo colloquio col comandante, questi mi prese con sé in fureria. Qui imparai a scrivere a macchina, a sbrigare le pratiche di ufficio e a… suggerire qualche argomento per la corrispondenza del mio diretto superiore, pazzamente innamorato di una ragazza e timoroso di ripetersi – timore più che fondato – scrivendole due volte ogni giorno.

Non portando io più il fucile, un commilitone che faceva il doppio gioco con gruppi di colore opposto, pensò bene di passarlo ad uno di loro, in modo da dimostrare tangibilmente “anche” a questi la sua solidarietà. Per cui io rischiai la fucilazione. Ma la cessazione delle ostilità sanò tutto. Incontrai quel commilitone molti anni più tardi e mi chiese scusa. Fu l’occasione per me di parlargli di ciò che nel frattempo avevo scoperto e iniziò così una conoscenza con lui e la sua famiglia che rimane tuttora.

Finita la guerra, ripresi l’Università e la frequenza all’ospedale. Però occorreva soprattutto studiare, perché di pratica ne avevo già fatta molta. Con un compagno ci chiudemmo in stanza e da dieci a undici ore al giorno ci concentrammo sui libri. Era una vita al limite della sopportazione; per fortuna mio padre mi aveva acquistato un pianoforte e col mio compagno di studio facevamo ogni ora alcuni minuti di intervallo suonando a memoria ogni canzone che ci veniva in mente. Avevamo però un gran desiderio di vita normale, ma rimandavamo tutto a laurea avvenuta.

Un giorno feci un’esperienza curiosa. Andando a casa dal mio compagno, fui colpito dal ritratto di una ragazza molto bella che – stranamente – mi fece battere il cuore. Chiesi chi era e mi rispose che era una cugina, morta dieci anni prima. Nonostante questo, il cuore continuò a battere e sognai quel volto per molte notti successive. Pensai che il fatto fosse legato alla primavera o al genere di vita troppo concentrata e sedentaria che conducevo, ma fu comunque un’esperienza che mi fece capire che quando ci si innamora non è sempre perché qualcuno, fuori di noi, merita d’essere amato, ma perché, avendo dentro di noi l’amore, dobbiamo pur riversarlo su qualcuno. E questo mi servì più tardi quando feci l’esperienza della carità: con questa nel cuore ci si sente spinti ad amare tutti; quando la carità si affievolisce, si distingue fra persone che meritano e che non meritano…

Continua

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About Luca Tamburelli

Sposato e padre di fue figli, vivo in Francia, a Annonay, presso Lione. Sono amico di Maras e di moltissimi suoi amici.