LA CHIAMAVANO LA SIGNORA MAESTRA
Ora la Chiesa la chiama Serva di Dio
Momenti del processo diocesano di beatificazione di ALBERTINA VIOLI ZIRONDOLI conclusosi il 16 maggio 2007.
Nel 2001 usciva ad opera dell’Editrice Città Nuova un libro dal titolo “Albertina – Una storia che continua”. Era la biografia di una donna di Carpi vissuta dal 1901 al 1972, di professione insegnante, che ha lasciato una profonda impronta nelle migliaia di persone che l’hanno conosciuta. Ed è stata punto di riferimento spirituale e morale, oltre che materiale per molte persone anche al di fuori della sua città.
(Continua da http://amicimaras.com/albertina1) Dopo questo inizio alla Theotokos di Loppiano, momento solenne che resterà impresso in tutti i presenti, si sono succeduti al Tribunale Ecclesiastico di Fiesole molti testimoni di vario ceto, età, etnia venuti da tutto il mondo e si sono moltiplicate le testimonianze che hanno fatto da supporto al processo di beatificazione. Alcune di queste – altrettanti momenti di Dio – sono riportate qui di seguito.
È stata una folgorazione
Valeria Antonielli – Segretaria al Centro dell’Opera di Maria – Rocca di Papa.
Solo recentemente, leggendo il libro-biografia Albertina – Una storia che continua, ho fatto la “scoperta” di questa donna eccezionale che ha saputo essere sposa, madre, maestra esemplare manife standofin da piccola il radicamento in Dio di ogni sua azione. È stato come se mi si fosse aperto uno squarcio di Cielo. A mano a mano che leggevo, raccontavo alle persone che vivevano con me i diversi episodi della sua vita, ma quando giunsi alle pagine riguardanti i momenti finali della sua esistenza, era così forte il divino e il sacro che toccavo con l’anima che, uscendo dalla mia stanza non riuscivo più a parlare di lei e avvertivo che l’atteggiamento più giusto era il silenzio. L’unico mio commento era allora di invitare le persone con le quali ancora abito a leggere il libro. Ho colto in Albertina una capacità straordinaria d’amore che supera la natura, non si trattava quindi di filantropia o frutto di una natura generosa. È stata una vera folgorazione! Attraverso questo libro Albertina continua a manifestarsi proprio come dice il sottotitolo della biografia: Una storia che continua. Nei confronti delle persone sapeva ritirarsi al momento opportuno, senza attribuire a sé i frutti che generava. Ed erano tanti!
Ricordo che quando Chiara Lubich andò a trovarla l’ultima volta, non poté entrare nella sua stanza perché Albertina era in rianimazione. Solo attraverso un vetro poteva vederla. E lei, avvertita della presenza di Chiara, ha ripetuto più volte: «Quanti pesi, quanti pesi!» E non si riferiva a tutte le sonde, gli aghi infissi nel suo corpo ma, come lei stessa ha precisato subito dopo: «Quanti pesi ha Chiara. Voglio aiutarla a portarli». Nessuno sapeva che Chiara aveva ricevuto poco prima una notizia che le aveva procurato un dolore così forte che sembra va impossibile da poter portare. E Albertina l’aveva colto. Arrivando poi a casa, Chiara aveva constatato che quel dolore non c’era più, il peso era sparito. Allora ha capito che quel dolore Albertina l’aveva preso su di sé e ha detto: «Albertina ha visto più di tutti gli altri». Le diede allora quella Parola della Scrittura che meglio la descriveva: «Portate i pesi gli uni degli altri». Nulla sintetizza meglio questa mia esperienza con Albertina delle parole dette da Chiara quando è uscita dall’ospedale pochi giorni prima che Albertina “partisse”: «Fotografate quegli occhi». Come a dire: «Qui Cielo e terra si sono uniti».
Albertina, una persona che affascina
Lia De Pra’ Cavalleri – Storica – Critica d’arte.
Gli incontri nella vita sono eventi misteriosi: ci sono persone che scegliamo (o da cui veniamo scelti), altre che incontriamo sembra per caso e altre ancora, anche del passato – artisti poeti santi – che sentiamo particolarmente vicini, da cui riceviamo coraggio, slancio, luce.
L’esperienza di ognuno consente di sentire vivo quanto già è stato vissuto ed espresso nel tempo anche da altri, attingendovi l’ispirazione necessaria per non lasciarsi sopraffare dal presente. L’oggi può apparire oscuro se non viene percepito come passaggio verso un orizzonte ben più ampio. Tale è stato il mio incontro con Albertina Violi Zirondoli. Di lei mi ha interessato innanzitutto l’apparente naturalezza di essere, la nobiltà del suo stile “semplice”. Albertina inoltre è una laica, che per la sua vita viene proposta come esempio alla beatificazione. Nella Chiesa i laici candidati alla santità sono rari. Proprio loro, tuttavia, consentono – a noi, che a nostra volta lo siamo – di comprendere come la vita possa essere vissuta in una pienezza anche gioiosa e nello stesso tempo in una dimensione che vada oltre l’umano sentire. Figure che fanno vedere la possibilità reale di sentirsi e di essere quei figli di Dio – qualunque sia la nostra convinzione religiosa – quei figli del Cielo che è della nostra natura essere. Quando non si riesca ad esprimerne le potenzialità.
Albertina ha in sé caratteristiche di apparente normalità nel vivere quotidiano, ma nello stesso tempo manifesta una grande generosità: la sua esistenza è non solo aperta, ma particolarmente sensibile alle tematiche sociali, benché nel contempo sia improntata a grande riservatezza e discrezione. È una persona che ha per noi riferimenti significativi: è una donna che si sposa, che attraversa situazioni difficili e importanti momenti di solitudine, che si assume responsabilità anche sul piano economico. Sono circostanze che noi, donne e uomini di quest’epoca, comprendiamo molto bene perché segni di una reale condivisione dei ruoli, di un farsi carico fino in fondo l’uno dell’altro. Si tratta di non rimanere sostanzialmente estranei, di esserci là dove in quel momento serve. Non solo Albertina non si è sottratta ai suoi doveri, innanzitutto familiari, ma ha da subito allargato il proprio impegno sino a rendersi responsabile di molte altre persone, in particolare donne, bambini, giovani, con sempre maggiore intensità, sino alla fine della vita. E l’ha fatto più che detto. Tra le sue caratteristiche più preziose, infatti, è l’uso limitato della parola, il non raccontare di sé, il parlare poco del figlio come dei sentimenti più importanti, non sciupandoli o banalizzandoli in un dire che impoverisce anziché arricchire la nostra stessa vita.
Nel 1945 – era l’immediato dopoguerra – è stata la prima presidente del neocostituito CIF, Centro Italiano Femminile, di Carpi. Sin da ragazza il suo stile è speciale. Quando inizia a insegnare, lei che si era diplomata maestra, fa riferimento a esperienze che vengono dalla vita, dalla conoscenza dell’ambiente sociale e naturale circostante. Lo si vede in particolare quando le viene affidata una “scuoletta” sui colli modenesi, dove si trasferisce con il marito e il figlio: gli alunni venivano da famiglie povere di contadini montanari, da case in cui il cibo non sempre è sufficiente, nonostante il duro lavoro di entrambi i genitori. Così lei spesso invita i bambini a fermarsi sia a pranzo sia a uno speciale doposcuola, nella sua stessa casa. Albertina aveva una cultura non indifferente: parlava francese, si occupava d’arte, amava la musica ed era piena di interessi che trasmetteva ai bambini raccontando storie, intrattenendoli, mostrando le meraviglie di quello che l’immaginazione può dare e può costruire come desiderio, come speranza e progetto, come capacità di sguardo sulla vita, anche lì dove pare che non ci sia nulla.
Quando qualcuno riesce a dare orizzonti e ad aprire finestre – come dice il poeta Leopoldo Verona – è un dono straordinario per tutti, perché un domani davvero si apriranno finestre e davvero si saprà vedere quello che c’è. Se non ci venisse insegnato questo sguardo, saremmo persone spiritualmente povere. Non saremmo forse in grado di cogliere e accogliere la vita. Albertina questo dono ha incominciato ad esserlo da subito. Ha manifestato una notevole capacità organizzativa anche nell’occuparsi di questioni femminili. I posti di lavoro, per le donne nella Carpi del ventennio fascista e del dopoguerra, sono di manovalanza, faticosi, condizionano la qualità delle relazioni interpersonali. Lei comprende che solo una donna che non s’accontenti di fare l’operaia e che abbia cultura, si può emancipare e arrivare ad essere soddisfatta da quello che realizza. Attraverso il CIF, istituisce corsi di formazione, apre colonie per i bambini, crea la possibilità di studiare per molte giovani, che aiuta e sostiene.
Con grande determinazione e intelligenza, in anni particolar mente faziosi e difficili, riesce a rimanere fuori dalla mischia politica, rifiutando ogni condizionamento per amore di libertà e di giustizia. Eppure, per sostenere i suoi progetti, ha a che fare
con sindaci comunisti e con sindacalisti, ma la sua autonomia – pur nella chiarezza delle scelte ideali e, quindi, politiche – rafforza il suo operato, cosicché la stima verso lei è grande e i risultati non mancano. Nel contempo è una donna di squisita delicatezza d’animo, di grande attenzione verso l’altro, di grandi silenzi. Il che le consente di cogliere negli altri quelle fatiche a cui saprà portare soccorso, con sapienza di persona attenta e conoscitrice dell’animo umano. È una figura di grande qualità, Albertina, una donna che mi affascina. All’inizio pare così perfetta che viene da dire: non riuscirò mai ad avvicinarla, tanto meno a seguire il cammino da lei tracciato. Poi ci si imbatte nel piccolo, prezioso libro che ne ricostruisce la vita e si è presi dai racconti delle persone, dagli aneddoti, da quello che concretamente è accaduto. E viene voglia di provarci. Leggendo, si scopre che le parole, estremamente equilibrate, che il figlio ha usato hanno dentro solo vita e che – pur nel pudore che contraddistingue i loro rapporti e la scrittura stessa del libro – a noi viene data la possibilità di ricostruire molti di quei modi di essere, vivere, fare. Il che rende possibile pensare che davvero questi siano accessibili anche a noi. Si può benissimo rischiare di diventare santi cercando di vivere meglio del peggio che tante volte riusciamo a combinarci. Si tratta di una possibilità da non sottovalutare, una possibilità reale di costruire un bel rapporto a partire dalle persone che più amiamo, anche quando subentrano dolorose fratture. Cosa non da poco.
Di lei, infine, mi rimangono impressi due momenti particolari. Il primo è legato a un episodio vissuto a Carpi: era inverno, faceva molto freddo, e lei viene vista in preghiera nella Chiesa del Crocefisso da una signora, che torna dopo tre ore nella stessa chiesa, dove la ritrova ancora completamente assorta. Le tocca una spalla per invitarla a tornare a casa, preoccupata che non prenda un malanno. Lei si scuote, alza gli occhi e dice che sì, è ora di rientrare. «Non dimenticherò mai quello sguardo!», fu il commento della signora raccontando il fatto. Il secondo è avvenuto all’ospedale di Firenze dove era ricoverata, negli ultimi giorni di vita, quando riceve la visita di Chiara Lubich alla cui spiritualità, dopo averla conosciuta attraverso il figlio, Albertina ispirerà la propria vita. Uscendo dalla sua stanza, Chiara Lubich dice: «Fotografate quegli occhi!» Occhi che vedevano il Cielo.
L’originale metodo educativo della maestra Albertina Violi Zirondoli
Irene Gualco – Dottoressa in Scienze dell’Educazione presso l’Università di Verona (laureata nel 2005 con la tesi di laurea su Albertina Violi Zirondoli da Carpi: “L’impegno cristiano ed educativo di una maestra”).
Ho conosciuto la figura di Albertina Violi attraverso la lettura del libro scritto dal figlio Alfredo; ho appro-fondito poi, nella mia tesi di laurea in Scienze dell’educazione, l’analisi del suo metodo educativo, originale per l’epoca in cui visse ed ancora oggi di grande attualità per il profondo messaggio di speranza che trasmette. Posso dire che quella della maestra Violi fu davvero una vita spesa per amore delle giovani generazioni. Il contesto in cui Albertina si trovò a vivere e lavorare come educatrice presentava molti problemi: all’inizio del ‘900 vi erano miseria, dure condizioni lavorative per i braccianti, diffidenza tra abitanti della città e della campagna, alta evasione dell’obbligo scolastico; inoltre, edifici scolastici carenti di comodità ed aule sovraffollate rendevano difficile per l’insegnante seguire le esigenze di ogni alunno. Con l’avvento del fascismo si aggiunsero i problemi derivanti da una forte gerarchizzazione dell’amministrazione scolastica: i docenti dovevano obbedire alle direttive imposte dall’alto, pena il licenziamento. Nel dopoguerra subentrò la forte conflittualità fra ideologie politiche contrapposte, scontro che vedrà spesso una grande tensione fra cattolici e comunisti (va detto subito che Albertina non si schierò mai politicamente pur rimanendo coerente con i suoi principi cristiani nella vita e nella professione).
Albertina iniziò ad insegnare nella scuola pubblica nel 1931, a 30 anni: il suo primo anno come insegnante di ruolo si svolse in un paese, Farneta di Montefiorino, dove poté sviluppare un metodo educativo innovativo per l’epoca (ma non solo) che non abbandonerà più: gli alunni si arricchivano anche grazie all’ambiente familiare che la maestra riusciva a creare, essendo spesso costretta, data l’inagibilità dell’edificio scolastico, a tenere le lezioni a casa propria. Albertina insegnava a vivere la vita quotidiana come una meravigliosa scoperta che entrava a far parte dell’esperienza scolastica, trasformando così l’apprendimento di nozioni in qualcosa di vivo e concreto. Ricorda suor Angela, una clarissa di Carpi recentemente deceduta, che da bambina abitava in campagna vicino alla frazione dove la Violi insegnava: «La signora Albertina, durante la ricreazione, veniva spesso a trovarci per mettere a contatto i bambini con la vita della campagna». Già dall’inizio dell’esperienza scolastica di Albertina si nota che voleva dare ai fanciulli una educazione integrale, completa, anche morale, e non trasmettere solo semplici nozioni. Vediamo ad esempio come, dopo aver ammonito un alunno dissuadendolo dal compiere un furto, scriva sul registro: «Siano rese grazie all’Onnipotente che ha permesso alla mia parola di entrare nell’anima di quella creatura dal cuore tanto buono, ma così poco indirizzata al bene, e di portarvi un raggio di luce».
Una delle sue ex-alunne ricorda: «La maestra Violi ci insegnava anche come dovevamo comportarci fuori dalla scuola, e ci seguiva anche durante la ricreazione, in cortile». Altre ex-allieve, inoltre, dicono di lei: «Trasmetteva dei principi e il tono delle lezioni era “un po’ speciale”»; e: «Il suo esempio non l’ho mai dimenticato: quando ho potuto far del bene a qualcuno, l’ho fatto pensando a lei». Ed ancora, a testimonianza di quanto la figura di Albertina sia diventata un punto di riferimento costante nella vita di coloro che l’hanno conosciuta: «Forse da bambine, non ci rendevamo conto di quanto lei poteva incidere sulla nostra vita; l’abbiamo capito più avanti negli anni. Per quanto mi riguarda, ho compreso che ha significato molto per me, anche e soprattutto al di là della vita scolastica». Il bambino, con le sue potenzialità ed i suoi bisogni, era il centro della missione di questa straordinaria figura di educatrice. Per lei ogni fanciullo era prima di tutto persona, era una creatura amata da Dio da guidare perché diventasse un adulto responsabile e un buon cristiano. Dunque Albertina spostò il “centro di gravità” della scuola dalla trasmissione di nozioni ai bisogni dell’alunno. Il figlio Alfredo ricorda che lei diceva: «Ogni bambino è come una persona a cui si fa il vestito su misura». Per Albertina era molto importante che nella classe si instaurasse un’atmosfera di amicizia e collaborazione tra gli scolari e cercava di favorire il superamento di quelle barriere che avrebbero potuto creare tensione (differenze di classe sociale, convinzioni politiche dei familiari…); cercava inoltre di offrire a tutti le stesse possibilità di istruzione.
Come presidentessa del CIF (Centro Italiano Femminile) di Carpi promosse doposcuola, colonie per i bambini e corsi di formazione professionale per donne poco qualificate in campo lavorativo. Ricorda un’ex-alunna di tali corsi: «Ci mancava qualcuno che ci desse fiducia e coraggio, quel coraggio che lei ha saputo donarci migliorando la nostra istruzione con la possibilità di metterla al servizio degli altri». Ciò che Albertina faceva dedicandosi all’educazione di bambini e donne e stimolando un clima di aiuto reciproco, era di creare un’interazione culturale, un legame più forte all’interno della comunità per mezzo del quale aiutare la comunità stessa a crescere. Pur non fondando, in senso stretto, alcuna comunità religiosa, Albertina, aveva la capacità di vivere una vera maternità spirituale all’interno della comunità, una comunità che, per essere tale, doveva esser educante (fra l’altro, prese a casa sua un bimbo affetto da tumore per aiutare la famiglia, assistendolo fino alla morte). Ciò che contraddistingueva il suo stile educativo era il suo alto concetto di “libertà”. Si dedicava, senza pregiudizi, all’educazione globale del bambino. Era come una madre pur rimanendo in primis un’educatrice. Una figura autorevole ma non autoritaria, vicina ai discenti con amore pur sapendo mantenere nei loro confronti anche il giusto grado di distacco: una via di mezzo, insomma, tra l’autoritarismo e lo spontaneismo.
Pur restando punto di riferimento per l’alunno e padrona di sé pur senza rigidità, Albertina rispettava la libertà di ognuno accompagnandolo affinché potesse arrivare a fare le sue scelte in piena autonomia, dopo aver acquisito, grazie allo sviluppo delle proprie potenzialità ed alla matura consapevolezza dei propri limiti, un giusto livello di autostima e di responsabilità. Una educazione alla libertà, dunque, una bipolarità positiva dell’amore che sa contenere, abbracciare ed accogliere ma anche lasciare, distinguere e distanziare, accettando che l’altro possa crescere nei suoi bisogni e nelle sue aspirazioni di autonomia e sviluppo. Considerando la vocazione di Albertina ad essere moglie, madre e maestra cristiana e quindi promotrice di valori basati su amore e rispetto per ogni persona, si comprende il perché attuasse un metodo d’insegnamento che somiglia a quelli di educatori che lei non conosceva, ma che si basavano sugli stessi principi.
Se leggiamo testimonianze del metodo educativo di Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari (a cui Albertina aderirà in modo del tutto radicale), possiamo osservare come, ancor prima non solo di conoscere i Focolari, ma della fondazione stessa di questo Movimento (1943), Albertina agisse come ispirata dalla stessa anima e dagli stessi ideali educativi (Chiara Lubich amava la libertà degli scolari e «voleva sempre la loro libera scelta». Dio non era imposto ad essi: nasceva dal loro cuore. La disciplina diveniva un effetto della riverenza e del-l’amore, una convinzione). Principi che mettono alla base dell’autorità educativa l’autorevolezza di Dio Padre, il quale chiede di educare con un amore che può evitare sia l’eccesso di distanza tra educatore ed educando, sia l’altrettanto pericoloso eccesso di vicinanza: questo può infatti portare a vedere l’educatore come un compagno, laddove vi è invece bisogno di un’autorevole figura di riferimento, in una società che sembra aver smarrito il senso e la figura del padre.
In lei si trovavano riunite una dimensione di amore materno, di dolcezza e donazione di sé, ed una di amore paterno, consistente in quella giu sta dose di autorevolezza che indicava la via da seguire, mantenendo poi il giusto distacco per favorire l’altrui autonomia. Inoltre, Albertina dava grande importanza alla trasmissione di valori morali, tra loro in una gerarchia in cui era pur sempre l’amore che doveva permeare ogni azione, mettendo comunque al centro la persona, e non solo una “legge” da rispettare. In questo senso libertà e autorità nel suo metodo si intersecano come pilastri irrinunciabili per lo sviluppo della consapevolezza e della coscienza, ma è l’amore la legge, la dimensione inte riore, il maestro a cui la scuola, quella vera, deve educare come via della propria e altrui felicità. Penso che l’insegnamento di Albertina possa trovare la sua attualità anche oggi, quando spesso l’autorità educativa, sia in famiglia che in ambito scolastico, viene malvista o, comunque, messa in disparte (su questo è stato tenuto a Firenze il 18 apri le 2007 un Congresso al Palagio di Parte Guelfa dal titolo «Il coraggio dell’educazione», interamente basato sul metodo educativo della maestra Albertina). Riscoprire il metodo di una maestra che sapeva riunire dolcezza ed autorevolezza e che educava il bambino con amore considerando ogni dimensione della sua persona, può dare spunti di riflessione su quelli che sono oggi i problemi educativi, su ciò che i giovani richiedono e che gli insegnanti dovrebbero cerca re di offrire per svolgere la loro missione nel modo più umano ed efficace. Non si devono abbandonare i bambini in momenti come questi. E la nostra epoca, forse come non mai, ha bisogno di educatori che sappiano, come Albertina Violi Zirondoli, dare la propria vita per le giovani generazioni.
Un “nuovo” metodo educativo
Alfredo Zirondoli – Autore della biografia di Albertina (nella foto: Alfredo, allora quindicenne, con la madre Albertina, al tempo delle esperienze da lui qui raccontate).
Albertina è stata mia madre e mia maestra ma non una maestra in senso riduttivo che distribuisce nozioni e basta ma un’educatrice che insegna a vivere tra sfondendo nell’insegnamento i valori per i quali vale la pena vivere. L’aveva capito Mamma Nina Saltini, la Serva di Dio, nota a Carpi per la sua
santità e per il bene che ha fatto, la quale chiamava Albertina: «la Signora Maestra», avendo colto in lei quella “nobiltà” che, pur nell’apparente normalità, traspariva dal suo comportamento e dal suo agire, dal suo sorriso e dai suoi silenzi. E a questa “Signora Maestra” io devo tanto di quello che so e che sono. Fin da piccolo infatti sono stato alla sua scuola, perché siccome lei faceva per molte ore al giorno lezioni private a bambini e ragazzi di scuole elementari, medie e superiori, io mi sedevo accanto a lei e… ascoltavo. Erano spesso cose più grandi di me, però la storia, la geografia, i costumi dei popoli, le scoperte dei navigatori, le abitudini degli animali sono entrate a far parte delle mie conoscenze come un gioco. E così pure la letteratura, l’arte, le lingue (io ho imparato il francese fin da bambino), la matematica con i suoi problemi mi interessavano al punto che imparai a “dialogare” con loro e a risolverli senza fatica. A sei anni sapevo leggere e scrivere correttamente tanto che feci molta fatica alla scuola pubblica trovandomi con dei compagni che avevano ancora difficoltà a fare le aste diritte… Mia madre creava la famiglia coi ragazzi e le ragazze che veni vano a lezione da lei e io, che sono figlio unico, mi trovavo a mio agio in questo clima nel quale le nozioni diventavano cultura e gli insegnamenti morali si traducevano in vita. Era una comunità nella quale si imparava a crescere onesti, leali, ben orientati moralmente e socialmente. E se capitava a volte che qualcuno uscisse con una parola non corretta o avesse un atteggiamento scomposto, mia madre si faceva seria quasi fosse stata ferita e si vedeva che soffriva. Una sofferenza più efficace di qualsiasi rimprovero o punizione. Si era rotto il rapporto con lei e tutti noi ci sentivamo responsabili. Poi mia madre parlava dell’errore che era stato commesso e delle sue conseguenze in modo che tutti ne fossimo convinti finché si ristabiliva il rapporto. E così tornava la gioia di imparare e di stare insieme. Su questo “metodo” originale ed efficace, che correggeva gli errori dopo averli assunti – e sofferti –, posso anch’io dare testimonianza. Infatti mia madre non mi ha mai sgridato, non si è mai irritata per un mio sbaglio né ha perso la pazienza, ma quel suo dolore, quegli occhi che mi fissavano e le parole che a volte mi rivolgeva sottovoce («Alfredo, perché hai fatto questo?») mi hanno cambiato dentro.
Il perdono rende liberi
Un giorno sentii dire da mia madre a un gruppo di ragazzi ai quali faceva lezione: «Qualunque torto riceviate, perdonate, per ché altrimenti non sarete liberi». Una frase che mi colpì e che al momento non capii. Che un cristiano debba perdonare perché Gesù l’ha comandato, lo capivo e anche avevo sempre cercato di farlo, ma che rapporto ci fosse fra il perdono e la libertà proprio non lo capivo. Evidentemente dovevo farne una forte esperienza. L’occasione si presentò qualche tempo dopo quando venni a sapere che il figlio del contadino di mio padre (che chiamerò Giorgio con un nome di fantasia per non farlo riconoscere), essendosi lasciato coinvolgere dalle idee che circolavano in Emilia Romagna negli anni ’60 (“la terra ai contadini”) aveva estorto con la violenza a mio padre una firma con la quale cedeva a lui la proprietà del terreno sul quale lavorava.
Una cosa assurda e incomprensibile fuori dal contesto infuocato di quegli anni, ma allora era così e per chi non si adeguava erano guai. Io mi trovavo all’estero e quando rientrai in Italia venni a conoscere tanti particolari dell’accaduto: mio padre minacciato di morte era stato legato a una sedia e costretto con la forza a firmare. La cosa, subito denunciata all’autorità, si era poi risolta dal punto di vista giuridico con un nulla di fatto, ma mio padre, quando lo vidi era ancora sotto choc per la violenza subita da un giovane che, oltre tutto, era stato da lui tanto aiutato. Pensai allora di incontrare Giorgio, ma non mi fu possibile per ché dovetti ripartire per la Francia. Mi era però difficile immaginare di incontrarlo e di guardarlo negli occhi come quando da ragazzi giocavamo insieme…
L’occasione si presentò qualche mese dopo quando mia madre mi fece sapere che Giorgio era ricoverato in ospedale e che «forse era bene andarlo a trovare – mi disse – perché sembrava trattarsi di una malattia grave». Rientrai subito in Italia, andai in ospedale, parlai con i medici che mi confermarono trattarsi di un tumore maligno ormai a breve scadenza e finalmente incontrai Giorgio. «Mi dispiace per quello che ho fatto a tuo padre», mi disse alquanto impacciato. «Il passato è passato, ora pensiamo al presente», risposi tendendogli la mano. E lo guardai negli occhi. Mi sentivo libero e felice. Aveva ragione mia madre! Ci abbracciammo e ripartii per la Francia. Poco tempo dopo Giorgio morì. Partecipai al funerale insieme a mio padre contento di essersi riconciliato con lui prima che morisse. Mia madre l’aveva aiutato a perdonare il torto ricevuto e questo aveva ricucito lo strappo che si era creato anche con tutta la famiglia sua. Veramente il perdono rende liberi e ci consente di essere in pace con Dio e con gli uomini.