STORIA DI MARAS VI – La docenza – La presenza di persone che volevano essere unite nel nome di Gesù

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Autobiografia

La docenza

Enrico Cavallini, medico che conobbe l'Ideale via Maras

Enrico Cavallini, medico che conobbe l’Ideale via Maras

Parecchi colleghi più anziani di me si domandavano come mai il direttore avesse preferito me, più giovane, proponendomi per un titolo – la docenza – cui sarebbe corrisposta una posizione anche economica di privilegio.

Oltre a essere più giovane, mi accusavano di fare “quello che volevo” a differenza di loro che eseguivano alla lettera – dicevano – tutto ciò che il “capo” disponeva.

Certo, il mio atteggiamento nei riguardi del direttore non poteva evidentemente essere qualificato come “servile”, ma l’innegabile novità che il nostro modo vivere aveva portato – dico “nostro” perché eravamo ormai in sei a vivere nella clinica l’ideale dei focolarini – non poteva in alcun modo definirsi come “fare ciò che si vuole”. Era piuttosto un non conformarsi a ciò che di vecchio, di routinario, di egoistico poteva esserci nell’ambiente per cercare invece di cogliere lo spirito con cui venivano espresse le varie esigenze dai responsabili della clinica e dagli ammalati. Era un pagare di persona quando altri avessero sbagliato, era andare contro corrente quando questa portasse a omissioni o ingiustizie.

Faccio un esempio: per un incidente operatorio dovuto a imperizia di un chirurgo, una giovane sposa si trovava in uno stato di choc dal quale, non essendoci sangue da trasfondere sembrava impossibile recuperarla. Il marito della donna, un tipo violento e passionale, aveva precedentemente avvertito il chirurgo che se l’intervento – secondo lui non necessario e che invece il chirurgo ci teneva a fare – non fosse riuscito, lo avrebbe “fatto fuori” con una coltellata.

Il mattino dell’incidente il chirurgo, ricordandosi della minaccia, scappò dalla sala operatoria e il marito, accortosene, arrivò furioso fino alla soglia della sala deciso – diceva – a far fuori qualsiasi altro medico vi avesse trovato. Allora scapparono tutti: l’aiuto chirurgo, gli assistenti, perfino gli infermieri e le crocerossine. Rimasi solo io che cercavo, coi pochi mezzi che avevo a disposizione, di rianimare la donna; mentre la suora, fra una telefonata e un’altra per chiedere sangue con urgenza, veniva a dirmi sottovoce che il marito mi aspettava fuori dalla porta, e andava da lui cercando di convincerlo che la moglie era ancora viva…

Mentre scrivo, mi sembra impossibile che certe cose potessero avvenire appena trent’anni orsono, eppure sono tutte stampate in me, non solo per la loro drammaticità ma per il riferimento alla nuova vita che avevo iniziato, nella quale Dio si manifestava sempre come Amore.

Comunque, dopo otto ore di rianimazione, senza che nessuno mi prestasse aiuto – l’unica presenza era quella della suora che ogni tanto mi proponeva un caffè – la donna si riprese e il marito desistette – e me lo disse – dal suo pazzo proposito. Particolare interessante: il chirurgo e gli altri medici che, dopo la fuga del mattino erano poi rientrati in clinica pensando che dopo tante ore fosse tutto finito, venendo invece a sapere che la donna era ancora in sala operatoria, mi mandavano dei messaggi per invitarmi a lasciar perdere, a non insistere, a sgombrare la sala. Uno mi chiese addirittura se avevo scambiato la sala operatoria per una camera mortuaria…

Quando poi si sparse la voce che la donna era viva piovvero i sorrisi e le congratulazioni di tutti e venne anche una manata sulle spalle da parte del direttore, accompagnata da un “lo sapevo che di te ci si puo’ fidare”.

UMBERTO GIANNETTONI

Umberto Giannettoni

Faccio un altro esempio: una sera tardi ricoverarono d’urgenza un ammalato grave sulla cui diagnosi il chirurgo e il radiologo non si mettevano d’accordo. Io mi trovai a passare per caso mentre i due – altercando – si attribuivano reciprocamente la causa della mancata diagnosi. Mi fermai, chiesi di vedere l’ammalato anche se non era di mia competenza e mi risposero: “fai pure, tanto fra dieci minuti è morto”.

Effettivamente la situazione appariva disperata: cianosi, dispnea, addome teso, polso a 180. Feci alcune domande, ma il paziente parve non sentire. Siccome però muoveva le labbra, io avvicinai l’orecchio per ascoltare e udii che bestemmiava. “Tanto fra dieci minuti è morto” ricordai. Corsi al telefono, chiamai il direttore, gli dissi che c’era un caso urgente da operare e che venisse subito. Arrivò un po’ assonnato e un po’ di malavoglia. “Di che si tratta?” domandò “Di addome acuto” “la causa?” “La vedrà lei stesso”.

Questa frase che per me significava “la diagnosi deve farla lei”, per il chirurgo risultò invece come se avessi detto: “E’ così evidente che non devo dirgliela io” e questo gli diede sicurezza e non ci fece perder tempo nella ricerca della causa che – ne ero sicuro – si sarebbe scoperta ad addome aperto.

Iniziata l’operazione si notò subito un enorme distensione dello stomaco che fu sufficiente svuotare perché, in pochi secondi, ritornassero normali il respiro e la circolazione. Dopo di che si trovò la causa (una aderenza da precedente intervento che fu subito tagliata) e l’operazione continuò liscia e abbastanza facile con grande soddisfazione di tutti.

Anche il chirurgo e il radiologo che un’ora prima avevano pronosticato la morte a breve scadenza, si attribuivano ora ciascuno il merito della riuscita, affermando solennemente: “quando non si fa la diagnosi, val sempre la pena di aprire…”

Quando il paziente lasciò l’ospedale, ormai perfettamente guarito, volle ringraziarmi. “Le devo la vita, dottore”. “Non a me ma a Dio che mi ha fatto trovare lì quando lei è arrivato”.

“Ma io vorrei fare qualcosa per lei” “allora mi faccia questo favore. Entri nella prima chiesa che trova, accenda una candela all’altare del Santissimo e Gli dica, a nome mio, che Lo ringrazio”.

Nonostante il direttore della clinica dicesse a tutti che mi avrebbe portato alla docenza, di fatto non si diede molto da fare. La prassi corrente esige che i cattedratici si scrivano, si scambino favori, prendano impegni reciproci, procurino raccomandazioni, e tante altre cose che vanno preparate molto tempo prima. Io invece mi trovai il giorno degli esami di fronte a una commissione che non mi conosceva, avendo come unica chance di riuscita la mia preparazione teorica, l’esperienza pratica e le pubblicazioni fatte. Per i primi due giorni d’esame non apparve nulla che mi permettesse di venire in luce. Veniva invece sempre più evidente, dal comportamento dei commissari e da alcune indiscrezioni, chi erano i preferiti. Il terzo giorno era quello della “lectio coram”. Si trattava di una vera e propria lezione, della durata di 40 minuti, che il candidato alla docenza doveva improvvisare, su un argomento tirato a sorte.

Essendo io l’ultimo in ordine alfabetico, quando mi presentai trovai i commissari stanchi e distratti. Invece di tre erano due, perché il terzo era uscito dall’aula. Uno di loro mi chiese il cognome, che faticò ripetere, poi mi disse: “Cominci pure” e nello stesso istante si mise a scrivere un telegramma da consegnare al portiere chiamato lì apposta. L’altro commissario sfogliava una dispensa – non mia – e prendeva appunti su di essa. Vista la situazione, io attesi a cominciare e quando il commissario – quello del telegramma – mi ripeté di cominciare risposi: “Aspetto che lei abbia finito e che la commissione mi ascolti”. Queste parole ebbero un effetto al di là delle mie previsioni. Smisero di scrivere, fecero chiamare il terzo commissario e, guardato l’orologio, si accinsero ad ascoltare. Avevo l’impressione che fossero un po’ seccati da questa mia pretesa, e questo aumentò ancora il mio impegno per dar loro qualcosa di valido. Evitai quindi di dilungarmi nelle premesse e venni subito al nucleo della lezione. Parlavo con concentrazione e rapidamente. Facendo così non ne avrei certo avuto per i 40 minuti previsti, ma era l’unico modo per tenerli attenti. A un dato momento si guardarono, si scambiarono un cenno, poi uno di loro mi disse: “basta così”. Erano trascorsi 12 minuti. Mi diedero la mano e mi sorrisero. Mi sembravano soddisfatti. All’uscita, dei miei colleghi non c’era più nessuno, solo due focolarini che mi aspettavamo per dirmi che ero atteso ad Assisi per un incontro del Movimento. Il risultato mi fu comunicato un mese più tardi: era positivo!

La presenza di persone che volevano essere unite nel nome di Gesù

Lucio Dal Soglio in Africa

Lucio Dal Soglio in Africa

Partecipare alla Messa quotidiana era sempre più difficile, dati gli orari che non coincidevano col servizio in sala operatoria. Una mattina corsi in cattedrale durante un intervallo e trovai un sacerdote che stava celebrando a un altare laterale. Un’anziana signora, che poi seppi essere sua madre, era inginocchiata alla balaustra e, al momento della comunione, mi misi accanto a lei. Il sacerdote che aveva riservato per lei un’ostia, la spezzò e me ne diede la metà. Il giorno dopo corsi di nuovo in cattedrale alla stessa ora e mi accorsi che il sacerdote aveva consacrato due ostie piccole, una per sua madre e un’altra – evidentemente – per me. Io però non ero solo perché Publio mi aveva seguito. Allora il sacerdote divise in due un’ostia e così facemmo la comunione tutti. Il mattino successivo a Publio si era associato Lucio, e il sacerdote, che pure aveva aumentato di una il numero delle ostie, fu costretto a dividerla per darne una metà a Lucio. La cosa si ripeté il giorno dopo, essendosi aggiunto Enrico, e il giorno dopo ancora, per Umberto e Vittorio, finché arrivammo a undici. A questo punto il sacerdote mise addirittura un ciborio nel piccolo tabernacolo e quell’altare – che notammo allora essere quello della Madonna – conservò da quel giorno l’Eucarestia.

Questo fatto ci piacque perché ci parve significativo che la presenza di persone che volevano essere unite nel nome di Gesù fosse stata occasione per una presenza di Gesù Eucarestia sotto lo sguardo di Maria. In quel tempo non capivamo tanti rapporti che più tardi il Movimento avrebbe sviluppato – l’Eucarestia, Gesù in mezzo, la Chiesa, Maria – neppure si parlava di “Opera di Maria”, nome che solo più tardi venne dato al Movimento dei Focolari – ma si intuiva il legame misterioso che univa le diverse espressioni di una vita che voleva essere la vita stessa di Gesù.

All’uscita dalla messa ci fu ogni volta il problema della colazione; siccome i soldi erano pochi e noi eravamo tanti, ci si limitava in genere a un cappuccino che consumavamo in un bar accanto alla cattedrale. Un giorno qualcuno scoprì un tipo di pasta alla mandorla così pesante che restava sullo stomaco – così diceva lui – per parecchie ore. Ci parve la soluzione, dato che il cappuccino invece se ne andava in fretta… Però l’esperienza non fu la stessa per tutti. Comunque nessuno defezionò, anzi il gruppetto aumentò di numero: partecipare alla Messa, rileggere insieme il Vangelo del giorno, comunicarci nel breve tempo della colazione le esperienze della nostra giornata, fare propositi di vita nuova, era un cibo ben più sostanziale di quello che ciascuno avrebbe trovato a casa sua.

Abbiamo incontrato il Signore

Una domenica i focolarini di Firenze mi chiesero di recarmi da una ventina di persone del Movimento per invitarle a un incontro la domenica successiva. Era caldo, e tutta la giornata la trascorsi cercando di raggiungere a piedi le suddette persone. Ma alcune non c’erano, altre erano occupate, altre dissero chiaramente di no. Alla sera ero proprio stanco e parecchio addolorato. “Come mai – mi domandavo – forse non le ho abbastanza amate per convincerle? Forse non ho avuto abbastanza fede?”

Mentre rientravo, mi raggiunse in motocicletta un focolarino: “vieni subito con me – mi disse – il figlio di… ha avuto un incidente”. Salii sul sedile posteriore della moto e partimmo; l’Ospedale era a una quindicina di chilometri, faceva ormai scuro e nonostante la giornata fosse stata calda, ora – specialmente correndo veloci – faceva freddo. Io mi tenevo rannicchiato dietro al focolarino che guidava, quando improvvisamente questi rallentò e si fermò. Alzai la testa per vedere cosa c’era e vidi una processione che veniva verso di noi. Scendemmo e ci raccogliemmo nell’attesa di poter proseguire. C’erano i chierichetti con i ceri accesi, i sacerdoti con le cotte bianche, il baldacchino e l’ostensorio dorato, tenuto in alto dal sacerdote. Mi feci, come tutti, il segno della croce e, quasi senza pensarci, mi attardai a fissare l’Ostia. Quel disco bianco appariva ai miei occhi – e ancor più alla mia anima – più bianco dei camici dei sacerdoti, più luminoso della luce dei ceri, più prezioso dell’oro dell’ostensorio. A tal punto che tutto ciò che gli faceva da contorno sembrava non avesse valore. E non si sarebbe neanche detto un disco ma qualcosa che aveva un volume, quasi un piccolo globo che – forse per la luce del crepuscolo – appariva ora con sfumature cerulee. “L’Ostia non è infatti qualcosa – mi venne spontaneo pensare – è Qualcuno!” E il pensiero divenne preghiera: “Ti ho cercato tutto il giorno, Signore, ora ti trovo”. La processione era terminata e io continuavo a starmene raccolto. “Che hai?” mi chiese il focolarino che mi accompagnava. “Abbiamo incontrato il Signore”. Non riuscii a dire altro, ma il focolarino intuì. Ripartimmo e io non sentivo più freddo…

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About Luca Tamburelli

Sposato e padre di fue figli, vivo in Francia, a Annonay, presso Lione. Sono amico di Maras e di moltissimi suoi amici.