Dopo la morte di Aurelio, tra le sue carte era stato trovato l’indirizzo di Matteo Finizio, studente, collega di Aurelio e non cattolico come si definisce lui stesso. Gli era stato scritto e aveva risposto con questa lettera che ora riproponiamo.
Genova 5-6-1968
Caro amico,
rispondo con molto ritardo alla tua lettera che mi hanno spedito da casa. Avevo saputo di Aurelio da un amico comune; fui pensoso tutto il giorno, come chi è preso da un totale disincantamento, a volte mi saliva nello spirito una rabbia tutta particolare e in questi momenti: – non doveva, non doveva morire – è così che mi dicevo. A me ora non importa che Aurelio sia andato in Paradiso, io so che Aurelio valeva (non dovrei usare questa voce del verbo forse sarebbe meglio dire – vale – perché di Aurelio resta vivo quello che ha fatto), Aurelio quindi vale più di mille Paradisi, ma (a questo punto bisogna considerare l’amarezza che si porta dietro questo – ma – ) non può continuare ad urlare quel messaggio di pace e di amore che costantemente portava dentro di sè.
Aurelio era un ragazzo meraviglioso, anche se non sono cattolico ebbe su di me una influenza notevolmente benefica, la sua genuina semplicità aveva una comunicativa immediata rinfrancatrice per chi aveva modo di stargli vicino, nemmeno i professori, l’ho notato bene, si salvavano da tutto questo quando Aurelio dava gli esami.
Da quando è partito per Loppiano ho perso i contatti, di lui ora mi resta il suo nome scritto sulla prima pagina di una enciclica di Paolo VI che mi regalò prima di partite; io gli regalai “la vita di Galileo” di B.Brecht (in questa occasione eravamo stati entrambi coerenti).
Se ora mi chiedo a cosa mi ha portato il mio profondo scetticismo scientifico, devo dire, che lungi dal farmi scoprire egoisticamente un’oasi personale di felicità, non mi ha fatto scoprire la verità, il significato della vita e contrappongo questa constatazione ad una immagine di Aurelio, di una sera, i primi tempi che lo conoscevo, quando avemmo una discussione serenamente animata; la luminosità dei suoi occhi quando cercava di farmi capire che non c’era arrivato, alla sua professione di fede, per nascita o per ereditarietà, che una volta anche lui era stato diciamo – dall’altra parte -, ma che poi s’era guardato intorno per scoprire come fosse facile amare il prossimo ed esserne amati.
Aurelio non lo disse, altrimenti lo si sarebbe potuto definire persino presuntuoso, ma so che, attraverso la scoperta di questa verità, Aurelio era felice e aveva dato un profondo significato alla vita.
Ora rivolgo un profondo e sacro rispetto per Aurelio e per tutto ciò che significa Aurelio; se cancellerò dal mio spirito il ricordo di Aurelio vuol dire che avrò dimenticato di essere un uomo. Sono delle riflessioni assolutamente coscienti, rigorosamente giuste tutte queste cose che ho scritto. Purtroppo non potrà esserti molto di aiuto questa mia lettera. Passerò da te quando parto la seconda settimana di luglio, così mi darai una copia del libro.
Ti saluto,
Matteo Finizio