«Arrivare da Gesù tutta d’oro». È questa la consegna che Chiara aveva dato a Lucia negli ultimi mesi del suo santo viaggio. E Lucia l’aveva presa sul serio: come un programma da attuare con fedeltà assoluta.
La fedeltà era sempre stata una sua caratteristica, fin da bambina. Fedeltà a Dio, appena ne ebbe coscienza, e fedeltà a tutto ciò che parlava di Lui, fossero persone o avvenimenti, programmi o opere.
Nata il 15 novembre 1927 in una famiglia umile e laboriosa, dove la religione era considerata norma di vita e codice di comportamento, era cresciuta allenandosi nella pratica delle virtù cristiane che la preghiera quotidiana e l’esercizio della carità, esteso a ogni prossimo, riempivano di dinamismo e di motivazioni sempre nuove.
La famiglia — padre, madre, tre sorelle e un fratello — abitavano a Lequio Tanaro (Cuneo), piccolo comune al centro di una zona agricola, dove la vita era semplice, fatta più di gesti che di parole: si lavoravano i campi, se ne vendevano i prodotti, ci si conformava ai ritmi della natura e si pregava Dio con fede, chiedendogli che la sua volontà fosse fatta, anche quando un temporale estivo rischiava di rovinare i raccolti o una grave infezione minacciava di decimare il bestiame. Vivace e volitiva, Lucia si integrava volentieri nell’austerità di cui i genitori davano l’esempio, muovendosi con armonia nelle diverse espressioni di una vita «dura, ma vera», come ebbe a dire lei stessa; che si trattasse di accudire alle faccende domestiche o di contribuire all’economia familiare allevando animali da cortile e vendendoli poi nei mercati dei paesi vicini.
Aveva 13 anni quando scoppiò la guerra, coi dolori e le ingiustizie che essa sempre scatena, e fu per lei, come per l’intera famiglia, un’occasione per dimostrare che «si vince il male col bene», accogliendo perseguitati politici e fuggiaschi, dividendo il pasto già scarso con chi aveva fame.
Quasi tutte le mattine si recava alla Messa dove attingeva la forza per mantenersi costantemente disponibile e serena. Spesso taciturna e sempre riservata, si sostituiva molte volte ad altri nei lavori pesanti o non graditi, senza farlo notare, quasi le venisse spontaneo. Per permettere al fratello di dedicarsi allo studio, si sobbarcò la sua parte di lavoro nei campi. E non ne fece mai parola. Non fece quasi neppur parola di un sentimento fioritole in cuore per un giovane del luogo, sentimento che Lucia sentì ben presto di dover troncare perché Dio glielo aveva chiesto. Fu un segreto fra lei e Gesù di cui parlò praticamente solo con Lui nei lunghi momenti di concentrazione, spesso sofferti, che seguivano la Comunione eucaristica. «Dopo aver lasciato questo giovane — racconterà più tardi — non capivo più nulla. Chiedevo a Gesù cosa fare, ma non avevo risposta».
Un giorno venne a sapere del Movimento dei focolari, incontrò focolarini e focolarine che cominciarono a frequentare la casa e nel ’56 partecipò alla Mariapoli di Fiera di Primiero. Non sembrò subito una risposta, però il suo interesse fu così preso da questa nuova vita che le sembrò non ci fosse altro da fare che… viverla. Intanto, entrato il fratello in focolare, la famiglia si trasferì a Torino dove il padre trovò lavoro nell’edilizia e Lucia fu assunta come guardarobiera in un istituto di rieducazione per ragazzi. L’ambiente era molto diverso da quello da cui proveniva e le condizioni di vita di questi giovani erano molto difficili e piene di tensioni. Eppure Lucia vi si inserì senza traumi, riuscendo a trasmettere attorno qualcosa del suo equilibrio e della sua serietà coinvolgente. «Infatti i ragazzi al solo vederla passare — ricorda il direttore dell’istituto — assumevano un atteggiamento composto, abbassavano il tono della voce, spegnevano la sigaretta. Cose che non facevano quando incontravano altre persone dell’istituto, soprattutto ragazze». A fine luglio del ’59 morì improvvisamente il padre di Lucia: precipitò dal quarto piano per lo spezzarsi di un montacarichi. Poco prima Lucia l’aveva visto recarsi al lavoro recitando il rosario come sempre faceva ogni mattina. Fu un grosso colpo per lei che le mise in evidenza che tutto passa e che Dio solo resta.
Per cui le parole della canzone composta quell’anno in Mariapoli «Se su nel ciel si spengono le stelle…» e cantata al funerale del padre, le fecero pensare che scegliere Dio doveva concretizzarsi col dare a Lui la propria vita. La spiritualità del Movimento infatti, che ormai tutta la famiglia viveva, era già stata fatta propria da Lucia, ma non sapeva come concretizzarla. Un aiuto importante le venne dall’invito rivolto a sua madre di trasferirsi a Grottaferrata per contribuire a dar vita, lavorando come guardarobiera e cuoca, a quelli che più tardi saranno chiamati corsi e scuole di formazione alla spiritualità dell’unità. E Lucia la seguì. Lasciarono la casa a Torino, distribuirono a parenti e a persone del Movimento i mobili e quanto possedevano, e con due sole valigie partirono per la nuova avventura che si apriva loro davanti. Così, semplicemente, senza nessuna sicurezza umana, ma con una grande fede in Dio che avevano scelto di servire nell’Opera di Maria.
Nel ’61 troviamo Lucia aiuto cuciniera in uno di questi corsi, e un giovane, arrivato in anticipo e non sapendo né di cosa si trattasse né a chi rivolgersi, ricorda di aver visto «una persona sorridente e serena, seduta accanto a un’enorme pentola piena di spinaci che — racconta — mi fece sentire a mio agio, completamente accolto, benvoluto, come in famiglia. Era presentissima a ciò che faceva e a ciò che diceva, eppure mi parve di capire che vivesse come al di là, in una dimensione che mi affascinò e mi inserì nello stile di vita che poco dopo scelsi io stesso, entrando in focolare».
Quando ebbe inizio a Grottaferrata la prima scuola per focolarine, si fece nuovamente presente per Lucia l’esigenza di concretizzare la donazione a Dio che le urgeva dentro. Ma «non ce la farò mai — pensava —; sono senza istruzione, non so parlare, non so tenere un incontro, cosa ci vado a fare io in focolare?». Scrisse comunque a Chiara: «Capisco che Gesù mi chiede tutto e io tutto gli voglio dare. Come fare per amarlo come lo ami tu?». E, mirando alto, osò chiedere: «Come fare per essere focolarina?». La risposta fu breve e molto semplice: «Cammina, cammina senza fermarti mai e sarai al più presto focolarina». E un giorno, all’uscita dalla chiesa, si imbatté in Bruna Tomasi, una delle prime compagne di Chiara che, guardandola, le disse: «Ma tu, cosa aspetti a entrare in focolare? Vai davanti al tabernacolo, consacrati a Gesù abbandonato e poi entra». Era la chiamata tanto attesa che finalmente si rendeva esplicita e concreta. «Andai subito in chiesa — ricorda Lucia — mi raccolsi a lungo con Gesù, lo scelsi abbandonato, gli dissi di sì per sempre e sentii che null’altro mi attirava più». Due giorni dopo era già in focolare a Roma. Come lavoro faceva la cuoca nel focolare di don Foresi, molto frequentato allora da vescovi presenti al Concilio, lavoro che richiedeva intelligenza e discrezione, iniziativa e silenzio. E lei, fin dall’inizio, seppe muovervisi bene, intuendo e partecipando, se pur indirettamente, «alle grandi cose che stavano accadendo in quegli anni nella Chiesa».
Più tardi, conclusosi il Concilio, si trasferì nel focolare di Marino, continuando per quasi trent’anni — se si eccettua un breve periodo a Loppiano — il suo servizio all’Opera nella zona dei Castelli Romani. Trent’anni passati come un attimo e — per chi guardava da fuori — nella normalità più assoluta. Pronta, disponibile, sempre su, in focolare e al lavoro: un lavoro semplice, ma non facile per le condizioni in cui si svolgeva. «Una persona — è stato detto —che c’era sempre quando occorreva, e che sapeva non esserci quando non era necessaria». Le stesse caratteristiche si notavano nei confronti delle persone — le più diverse — che incontrava, le quali restavano colpite dalla sua generosità e dal suo modo di essere, e cercavano di imitarne la vita ricambiando in vari modi, anche concreti, l’amore di cui si erano sentite oggetto. Chi le faceva arrivare dei fiori, chi un dolce, chi una bottiglia di vino «di quello buono, dei Castelli». Regali che passavano subito ad altri, moltiplicando la gioia e veicolando un messaggio — l’Ideale — che ben presto si faceva esplicito. «Non erano mai molte parole — ricorda la responsabile delle focolarine nella zona — ma sempre piene di sapienza e dette al momento giusto». Nel ’78 la mamma, anche lei entrata in focolare, fu colpita da un ictus cerebrale che la costrinse al letto per più di tre anni. E Lucia le fu vicina con un amore non solo da figlia, ma da madre. «Seppe essere la madre di sua madre — dice una focolarina che viveva con loro — con una presenza continua fatta di attenzioni e di cure, di operosità e di silenzio».
In occasione dell’infermità della madre, le fu affidato il ministero dell’Eucaristia, ministero che continuò a esercitare anche dopo. Il parroco le segnalava gli ammalati e lei andava a visitarli. Svolgeva questo compito con solennità, preparando le persone con una lettura (in genere il Vangelo del giorno), o semplicemente con la recita di una preghiera, fatta bene, con calma, con un senso del sacro che coinvolgeva i presenti e spesso li meravigliava, «anche chi, vivendo in focolare con lei, la conosceva bene». Non ricoprì mai ruoli di primo piano, non salì in cattedra, né vi fu messa dalle circostanze o dalle persone. Eppure è sempre stata all’altezza delle situazioni nelle quali si è venuta a trovare per una straordinaria capacità di mettersi al posto dell’altro che, frutto di un amore vissuto nella dimensione del «Qualunque cosa avete fatto avete fatto al minimo dei miei fratelli l’avete fatto a Me», le dava di rapportarsi — spontaneamente, si sarebbe detto — con chiunque si trovasse di fronte.
«Con lei ci si sentiva bene — ricorda un anziano sacerdote —come con una sorella sempre pronta a fare qualcosa per te, una persona sana nel senso più pieno del termine, con la quale il contatto era immediato, autentico, senza complicazioni». «Era trasparente, limpida — afferma un focolarino che la conosceva bene —, sempre se stessa con chiunque avesse a che fare, aperta a tutti, una “figlia di Dio” per la quale non esistevano grandi o piccoli, uomini o donne. Aperta anche a tutto ciò che di bello veniva a conoscere: la natura, l’arte, la musica. Sapeva cogliere, pur senza una particolare istruzione, la sapienza presente nel mondo». Per cui si capisce che molti ricercassero la sua compagnia, venissero a confidarsi con lei, e spesso trovassero — o ritrovassero — Dio.
«Una persona che sapeva ascoltare — la definiscono molti —Dio in primo luogo e ogni prossimo, anche coloro che, essendo piccoli o sofferenti, non sapevano esprimersi a parole». E perché sapeva ascoltare, era ascoltata: da Dio e dal prossimo, poiché la reciprocità dell’amore si manifesta anche così. «La sua caratteristica più appariscente era l’umiltà — sottolinea una sua compagna di focolare — ed era un’umiltà vera, non di chi vive come sacrificato, ma di chi regna, pur in un atteggiamento di continuo servizio». Altri sottolineano la sua pazienza, «una pazienza che non era sopportazione, ma un patir bene, trasformando tutto in amore, senza risentimenti o mormorazioni o chiacchiere. Eppure di cose ne sapeva tante!».
Tutti poi concordano nell’affermare che la virtù che la contraddistingueva era la carità, quella carità che non si spiega a parole, anche se se ne vedono i frutti, «ma si spiega in croce», come aveva detto un giorno Chiara. Il suo ideale però era l’unità, che della carità è l’espressione più alta, e in questa Lucia si è specializzata, realizzata, espressa. Un’unità costruita con forza, lavorando anche concretamente «coi muscoli», — diceva —; spesso eroica, a giudicare da certe sue frasi: «Quante volte sono corsa in chiesa, anche più volte al giorno, per dire a Gesù che non ce la facevo più. E poi, sempre, ne sono uscita consolata e convinta a rimanere». Eroismo che può sembrare misterioso per chi è fuori dal gioco, ma perfettamente inquadrabile in quel «l’amore e il dolore vanno tenuti nascosti», di cui pure aveva scritto un giorno Chiara.
Non sempre l’unità raggiungeva certi culmini, era però continua, informando parole e azioni ín uno stile di vita dove tutto era importante: grandi e piccole cose. «Ci fu un periodo — ricorda una focolarina — nel quale facevo fatica a svegliarmi al mattino a causa di certe medicine che prendevo. E Lucia mi aiutava ad alzarmi, aspettava che fossi pronta a costo di far tardi lei, mi accompagnava in modo che arrivassi puntuale agli appuntamenti e, se non ci riuscivo, si prendeva lei il rimprovero dovuto a me». Un giorno, per lasciar completamente libera una persona che, avendo da poco preso la patente, si muoveva con molta incertezza, non le disse di saper guidare la macchina ormai da molti anni, «e così abbiamo perfino fatto un lungo tratto a piedi — ricorda questa persona — per evitare di dover girare la macchina, dato che la strada era in salita e io temevo di non riuscire a cavarmela». «Una volta — racconta una focolarina — per salvare il rapporto con uno che aveva cercato di metterla in cattiva luce, si lasciò accusare, senza difendersi, senza lamentarsi, al punto che se non la si fosse conosciuta si sarebbe potuto credere che le accuse erano vere».
Nei momenti liberi dal lavoro seguiva un gruppetto di persone e faceva parte del Consiglio parrocchiale. E sempre trovava gli argomenti giusti per comunicare l’Ideale e, se interpellata, dava risposte esaurienti. «Una persona che sapeva quel che diceva, non perché avesse studiato o perché ripetesse frasi imparate da altri, ma per un’intelligenza d’amore, frutto del suo rapporto con Gesù». In focolare poi era sensibilissima a Gesù in mezzo e non le sfuggiva nulla di ciò che si sarebbe potuto fare perché ci fosse sempre. Per cui sdrammatizzava, conciliava, addolciva, spesso preparando un cibo che sapeva gradito, o stirando una camicetta per qualcuna che non aveva avuto tempo di farlo. Ma soprattutto dicendo di sì ai diversi aspetti di Gesù abbandonato che le si presentavano durante il giorno. «Gli anni passati con Lucia — ricorda una compagna di focolare — sono stati una grazia di cui solo più tardi mi sono resa pienamente conto: un capitolo importante, un lungo momento d’unità che ha cambiato la mia vita. Specialmente per il suo rapporto con Gesù abbandonato, del quale giorno dopo giorno mi faceva partecipe, e per la sua fedeltà all’Opera e a chi la rappresentava: Chiara per prima». Una fedeltà arrivata alla fiducia totale, alla conformità, alla semplicità del rapporto. «Perdonami se ti faccio una domanda —scriveva a Chiara già nel ’68 — ma da figlia tua mi sento tanto libera. Tu, come mamma, farai lo stesso…». E più tardi: «Ho trovato in te il mio stampo, mi sono trovata nella luce e ho scoperto cose che avevo dentro». Qualche anno dopo, in occasione di un incontro in cui Chiara aveva parlato di Gesù abbandonato, le confidava: «Non ci sono parole per ringraziarti. C’è solo da contemplare, ma contemplare coi fatti, cioè praticamente, in ogni azione che compio…».
E ancora: «Forse non ho capito con la testa quello che ci hai detto su Gesù abbandonato, ma sono sicura che, abbracciandolo e vivendolo, diventerà il mio tutto, il mio grande Amore, se fino ad ora non fosse stato così…». Un giorno che aveva mascherato il suo non star bene col nome di «riposo», scrisse: «Quando si riposa si medita, si prega, cioè si sta più in intimità con Maria. E nel silenzio, Dio parla al cuore». E un altro giorno, dopo un discorso sull’Eucaristia: «Quello che hai detto non è facile da capire, ma lo è da vivere, perché ogni volta che ricevo Gesù Eucaristia e lo adoro, mi fa capire la realtà che ci porta ad essere Chiesa, un solo Corpo, per realizzare “i cieli nuovi e la terra nuova”». Dove poi risalta particolarmente la sua fedeltà al carisma è nella totale adesione e immediatezza con cui faceva proprio e trasformava in vita ciò che Chiara trasmetteva nel “collegamento” periodico a tutta l’Opera: «Mentre ascoltavo il “collegamento”, la mia anima diceva: “Proprio così, proprio così! Sarà il carburante necessario per il santo viaggio”». E ancora: «Dire con te: “Mio cibo è fare la volontà di Dio” produce nell’anima la sazietà, la pace, fa sentire la fratellanza con Gesù e la figliolanza col Padre».
Concreta com’era, Lucia non si limitava a vivere in unità con Chiara e a scriverle molto spesso, ma si rendeva presente nei diversi modi che la sua fantasia pratica le suggeriva: un mazzolino di fiori raccolti da lei durante una passeggiata, un cestino di frutti di bosco confezionato con cura, un vasetto di miele di cui poteva garantire l’assoluta genuinità. Il tutto accompagnato da una frase che esprimeva il suo desiderio «di camminare — scrisse un giorno dopo un periodo difficile — sempre più sprint nel santo viaggio in unità con te, ed essere nell’Opera un granellino d’amore per realizzare il testamento di Gesù». Se si guarda a ritroso nel santo viaggio di Lucia, si nota quanto siano stati importanti per lei gli ultimi due anni, da quando cioè le fu diagnosticato un tumore maligno. Venne allora in luce, a mano a mano che si assottigliava il velo che la legava alla terra, un meraviglioso ricamo, minuziosamente tessuto nel tempo, in un lavoro a due — lei e Gesù — silenzioso e continuo. E molti che non la conoscevano o non si erano accorti di quanto straordinaria fosse la normalità che dimostrava, furono coinvolti in una reciprocità che era risposta al suo modo di essere: «Se ci amiamo l’un l’altro, Dio abita in noi e il suo amore in noi è perfetto».
Era questa infatti la parola di vita che Chiara le aveva dato, e lei sembrava riviverla con coerenza e fedeltà pur nella molteplicità del quotidiano. Per cui: «Stare con Lucia era una grazia che si riversava su tutte noi — testimonia una focolarina del suo focolare — trascinandoci nella tensione alla santità che lei viveva da anni, soprattutto da quando Chiara aveva lanciato il santo viaggio come programma per tutta l’Opera». Nelle ultime tappe di un’esistenza ormai alla fine, si scoprirono tante cose prima rimaste nascoste. Per esempio che la sua salute, per anni ritenuta da molti «senza problemi», di problemi in realtà ne aveva avuti, anche se l’attività non era mai stata interrotta. Oppure che il rinunciare, per motivi di lavoro, a tante manifestazioni dell’Opera (Mariapoli, giornate, congressi) non era stata cosa facile, anche se trasformata in un sorriso o in un «va bene così». Si venne pure a sapere quanto l’unità costruita fosse stata spesso a lungo sofferta, e come il partecipare a certi dolori di persone «sotto la potente mano di Dio» fosse stato un rivivere lo stabat di Maria in una desolazione che sembrava non finire.
Soprattutto venne in luce il suo rapporto con Chiara. Alla vigilia dell’intervento chirurgico che si preannuncia serio, Chiara le scrive: «Vai tranquilla». E Lucia, con la pace che le deriva dall’unità con lei, affronta l’operazione con una tranquillità che stupisce medici e infermieri, e si trasmette anche a loro. Il decorso postoperatorio è buono e dopo una breve convalescenza, Lucia torna al consueto lavoro. Ma a distanza di neppure un anno, ecco ripresentarsi una sintomatologia che richiede un nuovo ricovero. E gli esami effettuati mettono in evidenza una grossa metastasi.
«Oggi è per me un grande privilegio — scrive a Chiara — perché la notizia della malattia mi ha profondamente colpita, ma al tempo stesso ho sentito una gioia indescrivibile: ho sentito lo Spirito Santo che mi consolava». E dello Spirito Santo continua a parlarle nel periodo che segue: «È la mia luce — scrive —, il mio sostegno, il ponte che mi collega al Cielo. Questa malattia è un’altra perla da aggiungere al portagioie». Poi, nell’attesa di un nuovo intervento: «Non ti nascondo che in certi momenti mi prende la paura, ma cerco di vivere con solennità l’attimo presente; guardando a Lui, gli dico: “Vieni, Signore Gesù”, e attendo senza timore». L’intervento è lungo e difficile e il periodo postoperatorio altrettanto. «Ma ho capito e vissuto — scrive — il non turbarmi mai, perché sentivo che tutto era nelle mani di Dio. In ospedale — aggiunge — è stato un periodo di grazie dove ho potuto dare ad altre pazienti la pace che avevo, ed aiutarle ad avvicinarsi a Lui».
E così presente a tutte le ammalate della corsia, pensando a loro, indirizzando loro i doni che le arrivano, chiedendo alle focolarine che vengono a visitarla di occuparsi dell’una o dell’altra («Guarda che quella signora sta più male di me»), che i medici la chiamano benevolmente: la caposala. Intuisce infatti di cosa le altre possano aver bisogno e lo segnala al loro posto. È una cosa che colpisce molti, dato che non si sa dove attinga forze e lucidità per vivere così proiettata fuori di sé. Anche quando i medici parlano di lei e del suo stato di salute, lei partecipa «come se si trattasse di un’altra persona». Per cui «sono stato costretto a dirle la verità sul suo stato — dichiara il responsabile del reparto —; una persona così non si può ingannare». E in questo modo Lucia viene a sapere che, nonostante l’intervento, la malattia seguirà il suo corso: sarà solo questione di tempo.
Torna in focolare, in un piccolo appartamento tutto per lei, e lì, con due focolarine che l’aiutano, assiste al progressivo avanzare del male che non solo le procura fortissimi dolori, ma la rende sempre più immobile. «Con illimitata fiducia a quanto Dio le presentava di doloroso e di imprevisto — ricorda Graziella De Luca, una delle prime compagne di Chiara — si tuffava nelle incertezze e nei dubbi lasciati aperti dalla sua malattia senza domandarsi “perché”, né “quando”, né “come”. Si abbandonava con docilità estrema nelle mani di Dio e trovava la pace che poi traboccava sugli altri». Viene ospedalizzata ancora alcune volte per una chemioterapia e nuovi controlli, e sempre il personale, che ormai la conosce, le esprime in vari modi la sua simpatia. Lei ringrazia tutti, col sorriso sereno e lo sguardo pieno di luce, sostenuta da ciò che Chiara le ha scritto: «Tutto quanto succede di bello nell’Opera è pagato. E Gesù ha guardato a te in questo periodo. Ma è una predilezione, è amore, sta’ certa! Com’è stato amore il Suo, soprattutto sulla croce».
Prima del Natale ’90 torna a casa e non si muoverà più. Il 4 marzo seguente Chiara va a trovarla. E Lucia le confida «di passare momenti tanto duri, e di provare a volte la tentazione di non credere più a nulla», però afferma con forza: «Spero di andare da Gesù dandogli gloria». E Chiara a lei: «Preparati ad arrivare da lui tutta d’oro!». All’incontro con lui si era preparata tutta la vita, lasciandosi lavorare «come l’oro che vien provato col fuoco» e ora, nell’impennata finale, occorreva solo completare questo lavoro perché fosse perfetto fin nelle rifiniture. Il progredire della malattia è rapido; ci sono dei momenti in cui insorge improvvisa una febbre altissima che la fa tremare tutta e le provoca un senso di smarrimento. Ma sono incontri con Gesù abbandonato, e quando sono passati ne mette in comune il frutto con chi sta con lei. «Pensa se non Lo avessi amato subito, che occasione preziosa avrei perduta! Adesso ha cambiato vestito». Qualche volta però le viene da piangere, anche se stringe i denti e fa di tutto per non pesare su chi le sta vicino. Riceve molte visite di focolarine, focolarini, gen, volontarie, sacerdoti, persone conosciute in Mariapoli, familiari. Qualcuno ha timore che si stanchi, ma lei non rifiuta nessuno e a tutti racconta qualcosa: la venuta di Chiara, ciò che accade nell’Opera, ciò che è stato detto nel «collegamento».
Viene a trovarla anche don Foresi che le porta la benedizione sua e della Chiesa, e Lucia gli esprime tutta la sua gratitudine. Lo assicura pure che pregherà ogni giorno per lui, promessa che manterrà fino alla fine. Ai focolarini della zona dei Castelli, che le chiedono un pensiero per il loro ritiro, assicura un ricordo personale per cia-scuno perché tengano duro nel vivere questo grande Ideale. «Magari non è facile — sottolinea sorridendo — però quando si avvicina la partenza viene da chiedersi: “Cos’ho fatto durante la vita? L’ho amato? Ho fatto la Sua volontà?”. Certo, la nostra è una vita forte, ma se siamo fedeli all’Ideale, arriviamo bene alla fine» . Con le focolarine rivede i documenti personali: «La patente puoi gettarla — dice — per il Cielo non serve, la carta d’identità pure». Ma qualcuna si mostra addolorata: «Contiene la tua foto, devo gettare anche quella?», e Lucia cambia subito parere: «Allora teniamola ancora un po’». Alle sorelle offre i suoi vestiti più belli: «Tanto, a me non serviranno più…». Il 14 aprile Chiara torna a trovarla. «Sono nella pace — le dice —; le mie sorelle, che sono state qui per alcuni giorni, mi hanno trovata nella pace e sono ripartite contente». E Chiara: «Si sente che non è la pace di questo mondo, è un’altra pace che ti sazia l’anima». Poi le chiede di pregare per un incontro importante e per una «giornata» delle gen 4. Lucia promette e continua nel suo impegno per «diventare tutta d’oro». Ogni volta che si accorge che qualche parte del corpo non funziona più, dice: «È diventata d’oro», e sono le uniche occasioni in cui parla di sé. Per il resto vive espropriata, tutta tesa a «cercare il Suo volto», a fare la sua volontà, a tenerlo presente fra coloro che vivono con lei.
Vorrebbe che il Suo amore arrivasse a tutti; un giorno si commuove al pensiero che ci sono nel condominio delle persone che non è riuscita a conoscere, ma poi si abbandona a Lui chiedendogli di «colmare ogni vuoto». Una volta confida che qualcosa le pesa: dover sempre chiedere aiuto agli altri, per tutto. Ma qualcuno le risponde che è Gesù in lei che chiede aiuto. E Lucia: «E vero, allora cambia tutto». In un momento di tregua dal dolore, riesce a telefonare a una focolarina che aveva fatto parte del suo focolare la quale sta partendo per un continente: «Facciamo tutte due un viaggio — le dice — tu con il corpo, io con l’anima. Ho pregato per i tuoi genitori perché abbiano la grazia di superare bene questo momento. Non occorre che tu venga a trovarmi; siamo uno».
Parla spesso con grande serenità del suo passaggio e vuole prepararlo fin nei particolari. Sceglie infatti l’abito da indossare quel giorno, «un abito da festa». Il 12 maggio Chiara parte per il Brasile dove è previsto si fermi una ventina di giorni. Lucia le fa sapere che può contare su di lei, sulla sua possibilità di offrire e Chiara le risponde: «Parto e ti porto con me. Un pensiero di “Frammenti” dice: “Una macchina cammina quanta benzina contiene. Un’Opera di Dio si sviluppa quanto dolore viene trasformato in amore”. Puoi quindi capire perché ti porto con me!». E Lucia quei giorni, pur presentissima a tutto ciò che avviene nella sua stanza, vive anche in Brasile, da dove le arrivano notizie e aggiornamenti. Spesso, durante la giornata, guarda l’orologio e chiede che ora sia laggiù e cosa Chiara stia facendo. Continua, come ha sempre fatto, a vivere per l’Opera e per essa offre le sue sofferenze. «Quando mi viene da gridare, penso alla frase del “collegamento” e grido quella». Il soggiorno in Brasile si prolunga al di là del previsto e qualcuno teme che Lucia non ce la faccia ad attendere… E infatti molto peggiorata, ha l’ossigeno a permanenza e va soggetta a improvvisi cali di pressione che la rendono quasi incosciente. Invece Chiara ritorna e lei subito le scrive: «Ti ho seguito attimo per attimo, aspettandoti con cuore di figlia, all’unisono con le focolarine che sono con me. Affinché siamo quelle che tu ti aspetti da noi: persone che si santificano insieme».
Dopo due giorni Chiara va da lei di nuovo, ma Lucia ha preso una medicina che le provoca sonnolenza. Il rapporto però è tale che con semplicità le dice: «Mi riposo qualche istante, così dopo sarò più sveglia». E Chiara aspetta, intrattenendosi sottovoce con le focolarine presenti. Mezz’ora più tardi si riprende: «Mi sembra che non devo morire, ma solo fare un passo, come chiudere gli occhi e riaprirli di là». Poi soggiunge: «Ti porto con me quando parto. Chiederò alla Madonna che custodisca come in un blocco l’Opera. Che bello sarà rivederla!». Chiara le è seduta accanto e le ricorda i «nostri» già arrivati che presto incontrerà: Foco, Marilen, Renata… Poi le parla del «perder tutto» e dell’annullarsi che dà gloria a Dio. E Lucia accenna alla canzone «Se su nel Ciel si spengono le stelle». «Mi è sempre piaciuta tanto — dice —; è stata cantata al funerale di mio padre». E Chiara la canta con lei. C’è un’atmosfera di paradiso, il tempo pare fermato e tutto è trasceso in una dimensione eterna. «Sei più di là che di qua, vero Lucia?». «Sembra strano, eppure…». Chiara parla in trentino, come quando è con le sue prime compagne. Lucia è felice.
Lo afferma lei stessa più tardi a quelli che vengono a trovarla, e vuole anche che lo sappiano le sorelle e i nipoti nel caso non arrivassero in tempo: «Assicurate tutti che sono partita contenta». I dolori non mancano ma «sono quelli del passaggio. E un passaggio è sempre un passaggio». Poi soggiunge: «Non ho più nulla da offrire alla Madonna, se non questo momento». A tratti perde coscienza, poi si riprende. «Vedo come tante stelle… o dei fiori, però dopo torno a veder bene». Avendo saputo che è venuto un sacerdote ma non è entrato perché lei riposava, chiede che ritorni e le porti Gesù Eucaristia. «Vieni, Signore Gesù!», continua a ripetere. Attorno a lei si prega e si canta ed è lei stessa che suggerisce i titoli: «Del bell’amore», «Se su nel ciel», «Fa’ ch’io t’ami». Nel pomeriggio dell’8 giugno 1991 ritorna Chiara. È la quarta volta. «Mi dà tanta gioia che tu sia venuta — le dice Lucia — io vorrei che tu fossi sempre con me». Poi però, pensando che possa stancarsi, le sussurra: «Vai tranquilla, perché io sono in pace». «Ed era come se volesse dire — commenterà Chiara parlando di lei qualche giorno dopo —: “So come fare a morire”».
Poi, nel messaggio inviato a tutto il Movimento per comunicare la sua partenza, Chiara definirà Lucia: «una focolarina splendida», sottolineando che: «Non si può spiegare un passaggio così denso di soprannaturale se non pensando che ha teso tutta la vita alla santità nella carità». E concluderà: «I santi per amore sono già una realtà».
Alfredo Zirondoli (Maras)